Il curatore scrive che la scomparsa dell'Unione Sovietica fu "un avvenimento quasi apocalittico" che "lasciò un senso di disperazione e di angoscia" ai marxisti arabi. Tenuto conto di questo stato di sofferenza, il volume Il post-marxismo e il Medio Oriente sembra essere un progetto ispirato da obiettivi terapeutici e intellettuali: i quindici autori che hanno offerto il loro contributo sono tutti favorevoli alla sinistra, la loro antologia offre l'opportunità di trovare il modo di uscire dalla "disperazione e dall'angoscia". Coloro che hanno collaborato al testo sono "accademici famosi, politici, o entrambe le cose" e un terzo di essi è originario del Medio Oriente.
Qualunque sia la sua ispirazione, il libro – o almeno la prima metà che si occupa in modo specifico di Medio Oriente (il resto analizza le questioni internazionali) – fornisce un gran numero di candide intuizioni. In quello che forse è il saggio più interessante, Fred Halliday della London School of Economics si dice soddisfatto che il marxismo definisca il dibattito politico nei paesi arabi, senza fornire necessariamente le risposte, anche se questo risultato minore sfuma quando Halliday ammette tristemente che "il più grande successo del marxismo in Medio Oriente forse consiste nell'aver fornito agli islamisti gran parte del loro vocabolario politico". E in un passaggio, ovvio per la maggior parte di noi, e sensazionale per un simpatizzante della sinistra radicale, Halliday riconosce esplicitamente che "non si può attribuire tutto all'imperialismo". Il saggio di Jabar analizza utilmente i cambiamenti apportati fino a oggi dai partiti comunisti (ogni cosa, dai loro nomi alle teorie) e ravvisa perfino un lato positivo nel crollo sovietico (meno ostilità da parte degli Stati Uniti e più libertà di sperimentare, senza rischiare di incorrere nell'ira di Mosca). Tuttavia, anche lui non sembra affatto convinto che questo basterà a rilanciare un movimento che un tempo era sicuro della sua inevitabile ascesa e ora è così incerto del proprio avvenire.