Mentre il sistema giudiziario saudita fa notizia a livello internazionale, gli osservatori esterni hanno una certa difficoltà a stabilire la sua efficacia. Quando Yvonne Gilford, un'infermiera australiana di 55 anni, fu uccisa a Dhahran, le autorità saudite accusarono dell'omicidio due colleghe britanniche della donna, Deborah Parry e Lucille McLauchlan. I dubbi sorsero quanto divenne chiaro che poche procedure giuridiche dei Paesi occidentali (convocare i testimoni, fare dei controinterrogatori) hanno tutelato i diritti delle accusate. I due attentati dinamitardi contro i militari americani sollevarono dei dubbi ancor più gravi: nel primo caso, i funzionari sauditi giustiziarono quattro uomini senza permettere agli ufficiali Usa di avvicinare questi ultimi; nel secondo caso, i sauditi si sono limitati a chiudere il caso senza nemmeno curarsi di annunciare i risultati delle indagini.
Risulta che c'è motivo di dubitare dei processi che si trovano dietro queste decisioni. In un'eccellente opera d'investigazione forense, [l'organizzazione non-governativa, N.d.T.] Human Right Watch ha esaminato un altro caso recente e ha rivelato i modi in cui operano i tribunali illegali sauditi. Naqshabandi era un cittadino siriano da tempo alle dipendenze del Principe Salman, un nipote di Re Fahd. Quando Salman cercò di sbarazzarsi dell'uomo, escogitò l'inaudita accusa di magia/stregoneria (sihr), inaudita perché la magia era diffusamente praticata fra le élite saudite, dove ogni persona abbiente ha un mago preferito e la gente discute apertamente di chi sia il preferito del sovrano e come egli influenzi le sue decisioni. Salman arrestò Naqshabandi nel febbraio 1994. Se si ha abbastanza potere, a quanto pare si può fare tutto in Arabia Saudita: e il 13 dicembre 1996, Naqshabandi fu giustiziato per quest'accusa mai utilizzata. Complimenti a Human Rights Watch, per aver reso note queste atrocità e, più in generale, il modus operandi del sistema giudiziario saudita.