Nonostante i motivi ammirevoli – usare le capacità di descrizione di una scrittrice per pubblicizzare la difficile situazione afgana – il risultato della Lessing è così difettoso che potrebbe in realtà diminuire la comprensione della guerra afgana.
Il volume poggia su una menzogna per nulla irrilevante: anche se l'autrice afferma di fornire una "cronaca di prima mano della resistenza afgana", la Lessing non ha mai messo piede in Afghanistan, non ha mai viaggiato con i mujaheddin né è stata testimone di una sola battaglia. La sua brevissima visita l'ha trascorsa interamente in Pakistan. Né la Lessing è mai riuscita a conseguire quello che una famosa scrittrice dovrebbe ottenere: vivificare gli afgani descrivendoli in modo toccante e memorabile. Gli afgani che lei incontra restano delle pallide figure intrappolate nei loro ruoli culturali, degli stereotipi piuttosto che degli individui. E i fatti come sono da lei narrati sono un disastro. A detta dell'autrice, la Seconda guerra mondiale è durata quattro anni, i nipoti del Profeta Maometto sono stati uccisi nel V secolo (Maometto stesso era nato intorno al 570 d.C.) e gli afgani sono ebrei. Qualcuna delle sue inesattezze ostacola la causa dei mujaheddin, ad esempio il suo ritratto comico dell'assai terribile polizia segreta afgana.
Il vento disperde le nostre parole ha tutti gli ingredienti di questo sfortunato nuovo genere letterario, il libro "veloce", in cui un famoso scrittore trascorre una settimana o due in un punto caldo della politica internazionale e scrive una cronaca impressionista per promuovere una causa. Il libro richiede carta spessa, caratteri grandi e molti riempitivi: un excursus (il lungo e noioso primo capitolo della Lessing racconta il mito di Cassandra), dei "documenti" e tutto ciò che viene in mente, comprese le memorie bizzarre e i piccoli episodi.