Nato nel 1900 in una cittadina siriana, l'autore "è cresciuto con la paura di questi beduini, odiando il deserto e detestando il suo popolo". In seguito, Jabbur è diventato un eminente specialista di lingue semitiche all'American University di Beirut e, per sessant'anni, ha meticolosamente raccolto materiale sugli stessi beduini che un tempo disprezzava. Il suo capolavoro sull'argomento è apparso in arabo nel 1988 e ora (quattro anni dopo la morte dell'autore) in inglese, in un'eccellente traduzione.
I beduini e il deserto ha l'aspetto e l'atmosfera di un classico istantaneo, e questo è dovuto in parte all'esperienza personale dell'autore nonché alla sua erudizione, e in parte anche alla pubblicazione da parte della State University of New York di un bel volume (ed encomiabilmente poco costoso). Il testo rientra nella grande tradizione di Doughty e Musil, documentando e spiegando il deserto, ma potrebbe essere l'ultimo del suo genere, perché lo stile di vita dei beduini è così profondamente cambiato e ridimensionato nel corso degli ultimi cinquant'anni che un seguito di questo volume è altamente improbabile.
Jabbur organizza il suo libro intorno a quattro "pilastri" della vita beduina: il deserto, il cammello, la tenda e i beduini; ovviamente, il primo e l'ultimo ricevono maggiore attenzione. Se molte pagine del volume scorrono come un'opera di consultazione (come la lista degli animali o delle tribù), la conoscenza profonda dell'autore della poesia del deserto e le sue osservazioni animano spesso il testo con digressioni e considerazioni su tutto: dal ruolo dei falconi che cacciano le gazzelle fino ai matrimoni d'amore fra i beduini