Quando il termine è stato utilizzato dieci anni fa, spiega Bal, "il modello turco" si riferiva a un modello di sviluppo che includeva "la laicità in una società musulmana, un'economia di mercato, la vicinanza e la cooperazione con l'Occidente e un sistema multipartitico". L'autore documenta come nel periodo che va dal 1991 al 1992 gli stessi turchi e i loro amici occidentali abbiano sostenuto la tesi che il modello turco fosse esportato nei Paesi turcofoni del Caucaso e dell'Asia Centrale da poco indipendenti, ravvisando sostanzialmente in questo tanto un modo più accettabile di esportare i costumi occidentali in una nuova regione quanto un metodo per ostacolare l'influenza iraniana e altri influssi spiacevoli.
Poi, mostra Bal, il sostegno per il modello turco ha cominciato ad affievolirsi alla fine del 1992 e "alla fine del 1993 è sparito quasi del tutto". In Occidente, questo cambiamento è frutto di una presa di coscienza che le influenze iraniane erano limitate, che le forze russe nella regione restavano piuttosto inalterate e scaturisce altresì da una paura di un pan-turchismo in ripresa. Nelle stesse repubbliche turcofone, il declino del modello è causato da una paura di avere un nuovo "grande fratello" che rimpiazzi la vecchia Unione Sovietica e da un più grande scetticismo verso la Turchia dopo averla conosciuta meglio. E chi ha bisogno di un intermediario con l'Occidente quando l'Occidente è pronto (in particolare sotto forma di compagnie petrolifere) ad andare direttamente in Caucaso e in Asia Centrale? Con un po' di nostalgia, ma con le idee chiare, Bal descrive accuratamente gli entusiasmi di un momento recente ma remoto.