"L'ambasciatore straordinario e plenipotenziario dello Stato di Palestina, Sameeh Abdul Fattah, ha il piacere di invitare a cena il signor Daniel Pipes il 24 gennaio alle 18,00. R.S.V.P."
Benché fossi un po' preoccupato di mettermi nelle grinfie dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, l'occasione sembrava irresistibile. Così accettai l'invito dell'ambasciatore" – e mi venne servita una cena dal sapore tipicamente mediorientale.
Ricevetti l'invito in occasione di una mia visita a Praga nel gennaio scorso. Avevo tenuto una conferenza sull'ultima crisi del Golfo Persico. Erano presenti un gran numero di ambasciatori arabi, ma non c'era quello palestinese. Gli organizzatori dell'evento avevano fatto tutto il possibile per farlo venire, ma lui si era rifiutato. In cambio, propose di offrire una cena dopo la conferenza.
Alle 18,15 una grossa Volvo si presentò al mio albergo e l'autista mi condusse alla "residenza". Là due persone mi accompagnarono all'interno dell'elegante villa interamente illuminata. Abdul Fattah, un omino vivace, mi salutò in tre lingue e mi fece accomodare. "Qualcosa da bere? Sì, dell'acqua minerale. La prego, prenda un drink. Whiskey. Vodka. Un Martini." Naturalmente, arrivò rapidamente un secondo bicchiere, servito da un cameriere con la cravatta nera e dai modi impeccabili.
Fummo presto raggiunti dall'ambasciatore egiziano, una donna che aveva studiato negli Stati Uniti. Curiosamente, nella conversazione che seguì, per due terzi del tempo ella dette ragione al palestinese e per un terzo a me. (Dopo che finimmo di discutere delle condizioni meteorologiche, Abdul Fattah ed io, come si poteva immaginare, ci trovammo d'accordo su ben poche cose.) Parlando di Medioriente, l'ambasciatrice fece eco al palestinese; ma quando si affrontò l'argomento Stati Uniti prese le mie difese. Ad esempio, ella capì che la vittoria dell'America nella Guerra Fredda non ci motivava oggi a ottenere l'egemonia mondiale, quanto piuttosto a cercare l'introspezione e a coltivare il nostro giardino.
La discussione più animata della serata arrivò tra la minestra e la portata principale, quando Abdul Fattah mi chiese cosa ne pensassi dei negoziati arabo-israeliani a Washington. Risposi che procedevano bene, e poi gli chiesi il permesso di fornire qualche antefatto sul mio punto di vista, avvisandolo che quanto stavo per dire non sarebbe stato di suo gradimento. Mi incoraggiò a continuare. Gli dissi che consideravo i Paesi arabi come i principali oppositori di Israele e che pensavo che la pace con lo Stato ebraico conterrà di fatto le dimensioni internazionali del conflitto. Al contrario, i palestinesi non hanno che un'importanza secondaria. Di conseguenza, mi importa poco che la parte palestinese dei negoziati non sia mai decollata perché la parte siriana ha fatto dei notevoli progressi.
Questo approccio avevo reso Abdul Fattah quasi incapace di controllarsi. Ma non ripeto tutto quello che ha detto riguardo alla questione palestinese che [a suo avviso] costituisce la questione chiave della politica mediorientale; in merito all'impossibilità di una pace separata e riguardo alla serietà delle intenzioni dell'Olp – perché non c'è dubbio che già si sappia tutto questo.
Al momento del brandy e dei sigari, Abdul Fattah colse l'occasione di avere un americano che parla l'arabo come pubblico per illustrare a grandi linee i piani di Washington per manipolare il Terzo Mondo, minare l'Islam e osteggiare i diritti dei palestinesi.
A fine cena, noi invitati ringraziammo il nostro ospite per il banchetto non insignificante. Un piccolo drappello mi riaccompagnò alla mia limousine (fornita dall'Olp) che poi mi condusse in gran fretta all'albergo.
A posteriori, ciò che ha caratterizzato la serata non è stato tanto "l'aperto scambio di opinioni", che era assolutamente normale, quanto invece due stranezze: che l'Olp abbia potuto tendere la mano a qualcuno come me e che abbia offerto una cena così raffinata e borghese.