Con ogni probabilità, la violenza cominciata a Gerusalemme il 28 settembre segna un importante punto di svolta nel conflitto arabo-israeliano. E il modo in cui gli israeliani reagiranno avrà delle dirette implicazioni per gli americani.
Dalla sua creazione, avvenuta nel 1948, fin quasi al 1993, Israele ha perseguito costantemente una politica di deterrenza: suggerendo ai suoi nemici di non combinare guai altrimenti l'avrebbero pagata cara. Per quanto costoso e spesso faticoso da perseguire, per non dire impopolare a livello internazionale, questo duro approccio ha funzionato; a malincuore e lentamente gli oppositori dello Stato ebraico hanno finito per accettare la sua esistenza.
La famosa stretta di mano del 1993 tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca ha inaugurato una politica ben diversa: una linea politica più moderata, più generosa e più accettabile a livello internazionale. A partire dal 1993 gli israeliani hanno offerto sostanziali benefici ai loro nemici (autonomia palestinese, Libano meridionale, alture del Golan) senza chiedere quasi nulla in cambio.
Ad esempio, sebbene i diplomatici protestino contro la retorica jihadista nei discorsi di Arafat e contro le vignette antisemite pubblicate dai quotidiani palestinesi, quei reclami risultano essere vani; dopo aver mosso delle obiezioni, gli israeliani tornano dritti al tavolo dei negoziati e fanno ulteriori concessioni. Le azioni terroristiche da parte dei palestinesi conducono soltanto a delle transitorie interruzioni dell'attività diplomatica, pause cui fa seguito un repentino ritorno a ciò che è stato denominato in modo discutibile processo di pace.
Gli israeliani sono generosi nelle aspettative che la buona volontà susciterà un sentimento reciproco da una parte all'altra della linea di battaglia. Essi sperano che l'indulgenza li liberi da un conflitto vecchio e non voluto.
Triste a dirsi, ma è accaduto esattamente l'opposto, poiché la politica israeliana della buona volontà sconcerta i palestinesi e gli altri arabi. Talvolta essa viene considerata come un segno di debolezza; il presidente siriano commentando la decisione israeliana di evacuare il Libano meridionale ha detto che è "una disfatta israeliana, la prima dalla creazione dello Stato". Altre volte, la buona volontà sembra essere un terribile inganno: la piacevole visione di Shimon Peres di un "nuovo Medio Oriente" benigno va tradotta in arabo come una eccessiva ambizione israeliana di egemonia economica.
In entrambi i casi, la morbida politica di Israele fa sì che i suoi nemici siano meno disposti al compromesso. Piuttosto che cercare vantaggi parziali attraverso i negoziati, i palestinesi sono sempre più decisi a ottenere tutto mediante l'uso della forza. Questa dinamica spiega la quasi totale mancanza d'interesse nelle generose proposte fatte a luglio da Ehud Barak. Quest'ultimo ha offerto loro il 90 percento della Cisgiordania, l'ingresso in Israele di 150.000 palestinesi e la sovranità condivisa sul Monte del Tempio. Ma queste clausole hanno destato un trascurabile interesse in una popolazione che adesso esige il 100 percento del territorio, l'ingresso di milioni di palestinesi nello Stato ebraico e la piena sovranità.
Anche se i palestinesi da anni manifestano una crescente impazienza con l'attività diplomatica, i loro interlocutori israeliani (e americani) sembrano non cogliere questo stato d'animo, immaginando che un altro pezzo di carta li appagherà. Ma l'aggressività e la presunzione palestinese hanno ormai raggiunto un punto in cui delle ulteriori concessioni israeliane sono irrilevanti. È arrivato il momento di ricorrere all'uso della forza.
E così è cominciata una campagna di violenza. A giudicare dai sentimenti attuali, potrebbe durare a lungo: "Questa è una guerra fra religioni", ha detto all'Associated Press Khalid Abu Araysh, un venticinquenne di Hebron "ed io vi partecipo perché sono musulmano".
L'attuale spargimento di sangue pone Israele di fronte a una scelta: proseguire con l'allettante politica di ritiro unilaterale successiva al 1993, sperando nell'impossibile che maggiori concessioni indurranno i palestinesi ad armarsi di buona volontà; oppure ritornare alla meno piacevole, ma assai più efficace politica di deterrenza, mettendo i palestinesi sull'avviso che Israele non solo si proteggerà dalla violenza, ma ribalterà i vantaggi resi ai palestinesi a partire dal 1993; e solo quando i palestinesi mostreranno un ripensamento – il che significa una reale rinuncia all'uso della violenza – i negoziati ricomincerebbero.
I segnali non sono buoni. Barak ha annunciato che "una cessazione della violenza è una precondizione per il prosieguo dei negoziati", lasciando intendere la sua disponibilità a tornare a sedersi al tavolo negoziale, come se niente fosse successo. Quanto asserito indica ai palestinesi che la loro violenza non ha un costo diplomatico e ciò in definitiva è accettabile per Israele.
Una simile debolezza israeliana ha in fieri delle preoccupanti ripercussioni per gli americani perché, come principali garanti della sicurezza dello Stato ebraico, gli Usa hanno a cuore l'incolumità e il benessere di questo Paese. Pertanto, piuttosto che incoraggiare gli israeliani a prendere delle misure che erodano ulteriormente la sua sicurezza, come fa così entusiasticamente l'amministrazione Clinton, dovremmo distoglierli dal pericoloso corso che stanno perseguendo.