Invitato di recente dalla Petcher Middle East Polls, una neo-società di ricerca che conduce sondaggi d'opinione, a porre tre domande a un campione rappresentativo di 1.000 egiziani e di 1.000 sauditi residenti nelle aree urbane, il Middle East Forum (MEF) ha focalizzato l'attenzione sull'Iran e su Israele, i Paesi che maggiormente spaccano in due la regione. I risultati sono illuminanti. Prima di vedere perché, però, bisogna fare un'annotazione tecnica per spiegare le caratteristiche (e dunque anche la rilevanza) della ricerca. Ebbene: le interviste sono state realizzate faccia a faccia in lingua araba, direttamente a casa degli intervistati, utilizzando un questionario strutturato nel mese di novembre, e sono state altresì condotte da una società locale privata di comprovata esperienza. Il margine di errore è compreso tra +/- 3 per cento.
Alcuni egiziani e sauditi sono favorevoli a un attacco israeliano contro gli impianti nucleari iraniani. |
Queste cifre evidenziano che tra un sesto e un terzo della popolazione residente nei due Paesi più importanti del blocco dello status quo è favorevole a un attacco israeliano o americano contro le infrastrutture nucleari iraniane. Sebbene non sia una minoranza irrilevante, essa è abbastanza esigua da fare esitare il governo egiziano o quello saudita in merito al fatto di essere coinvolto in un attacco contro l'Iran. In particolare, la possibilità di dare alle forze aeree israeliane il permesso di attraversare lo spazio aereo saudita sembrerebbe essere fuori questione.
E veniamo adesso al tema Israele. Il MEF ha chiesto: «L'Islam definisce lo Stato egiziano e saudita; qualora ne ricorrano le condizioni, accetteresti uno Stato ebraico d'Israele?» In tal caso, il 26 per cento degli egiziani e il 9 per cento dei sauditi intervistati ha risposto affermativamente. Questa domanda è stata posta per quantificare la sostanza del conflitto arabo-israeliano, un conflitto che non riguarda le dimensioni dello Stato di Israele, le sue risorse, gli armamenti, la sovranità sui luoghi sacri o il numero dei cittadini che vivono in Cisgiordania; piuttosto esso concerne il fondamentale obiettivo del sionismo, la creazione di uno Stato definito dall'identità ebraica. Per fornire un contesto: circa il 20 per cento dei palestinesi sin dagli anni Venti è disponibile a vivere in armonia con Israele. La percentuale degli intervistati egiziani a riguardo è leggermente più alta, mentre quella saudita è decisamente inferiore. Questi risultati sono conformi alla natura più apertamente religiosa della vita politica in Arabia Saudita rispetto all'Egitto. Essi confermano che ora la principale fonte dell'antisionismo non è più il nazionalismo, ma l'Islam.
Da un esame minuzioso delle cifre del sondaggio risulta una leggera variazione demografica (per età, cultura, etc.). Una differenza salta all'occhio riguardo al sesso degli intervistati, con le donne egiziane che accettano l'esistenza di uno Stato ebraico d'Israele più degli uomini egiziani, ma con l'esatto opposto tra i sauditi, qualcosa che non è facilmente spiegabile. Le differenze geografiche in Arabia Saudita sono più importanti. Coloro che abitano nella parte occidentale del Paese, che è più vicina a Israele, accettano maggiormente uno Stato ebraico rispetto a coloro che risiedono nelle più distanti aree centrali ed orientali. Al contrario, questi ultimi potrebbero per il 50 per cento appoggiare un attacco americano contro il vicino Iran rispetto agli abitanti della più distante regione occidentale. La regione occidentale saudita (Hijaz, Asir) resta fedele al suo passato di zona più tollerante del Paese, mentre la parte orientale (Al-Ahsa) ha un maggior numero di sciiti e più timore dell'Iran. Queste variazioni regionali mettono in evidenza l'utilità di vedere l'Arabia Saudita non come un Paese omogeneo, ma come un amalgama di regioni dotate di identità storicamente differenti e che probabilmente fanno politica senza prescindere da queste discrepanze e diversità.
In breve, queste cifre dell'indagine demoscopica evidenziano un'esigua, ma non irrilevante, base di opinioni costruttive nutrite in Paesi che sono largamente ostili all'Occidente e a Israele. Se questa base ha poche prospettive di incalzare la politica in un futuro prossimo, essa offre però un fondo di buonsenso che, se gli verrà data appropriata attenzione, può essere lo zoccolo per promuovere dei miglioramenti a lungo termine.