Per quale motivo fare, a tre sole settimane delle 208 che mancano allo scadere del mandato presidenziale, una valutazione dell'operato di un neopresidente americano riguardo un argomento così misterioso come il Medio Oriente e l'Islam? Nel caso di Barack Obama la si fa:
1. perché è un operato contraddittorio. Il suo background trabocca di radicali antisionisti dagli occhi spiritati come Ali Abunimah, Rashid Khalidi ed Edward Said, di islamisti, di Nazione dell'Islam e di regime di Saddam Hussein. Ma da quando è stato eletto, Obama ha fatto prevalentemente nomine di centro-sinistra e le sue dichiarazioni sono simili a quelle dei suoi predecessori della Stanza ovale.
2. a causa dell'immane ruolo ricoperto da Medio Oriente e Islam. Le sue prime due settimane da presidente sono state testimoni di un discorso inaugurale che ne ha fatto profusamente menzione, di una prima telefonata diplomatica fatta a Mahmoud Abbas dell'Autorità palestinese, della nomina di due inviati di spicco e della prima intervista rilasciata al canale televisivo Al-Arabiya.
In cosa consiste questo ciclone?
Conflitto arabo-israeliano. Una strana combinazione: Sì alle dichiarazioni riguardo agli imperativi di sicurezza di Israele e nessuna condanna della sua guerra contro Hamas. Ma anche profusi elogi per il "Piano Abdullah", un'iniziativa del 2002 in base alla quale gli arabi accettano l'esistenza di Israele e in cambio lo Stato ebraico tornerebbe ai confini esistenti nel giugno 1967, un piano che si diversifica dalle altre iniziative diplomatiche a causa delle sue innumerevoli questioni in sospeso e del totale affidamento sulla buona fede araba. Le elezioni israeliane hanno buone probabilità di portare al potere un governo che non è favorevole a questo piano, il che vorrebbe dire difficili rapporti israelo-statunitensi per il futuro.
Afghanistan e Iraq. Nessuna sorpresa. Più attenzione al primo e meno enfasi al secondo («mi vedrete rispettare l'impegno preso di ridurre le truppe in Iraq»).
Iran. Una disponibilità a parlare con un regime iraniano combinata a un debole ribadimento dell'inammissibilità delle azioni di Teheran («l'Iran ha agito nei modi […] che non portano alla pace e alla prosperità»).
Guerra al terrore. Un analista ha annunciato che Obama «sta mettendo fine alla guerra al terrore», ma questa è una congettura. Sì, è vero, il 22 gennaio Obama ha accennato al fatto che era «in corso una lotta contro la violenza e il terrorismo», evitando di definirla "guerra al terrore", ma più tardi nello stesso giorno ha invece parlato proprio di "guerra al terrore". Visti i numerosi modi maldestri con cui George W. Bush ha fatto allusione a questa guerra, inclusa «la grande lotta contro l'estremismo che adesso viene condotta fino in fondo in tutto il Medio Oriente», l'incongruenza di Obama finora lascia intendere una continuità con Bush più che un cambiamento.
Rivolgersi al mondo musulmano. Il riferimento fatto da Obama di voler ritornare «allo stesso rispetto e alla medesima collaborazione che gli Usa hanno avuto con il mondo musulmano negli ultimi venti o trenta anni» modifica la storia, ignorando che il 1989 fu un pessimo anno e che il 1979 fu il peggiore in assoluto riguardo ai rapporti tra Stati Uniti e mondo musulmano. (Nel novembre 1979 Khomeini, giunto al potere dopo aver rovesciato nel febbraio dello stesso anno lo Scià, sequestrò l'ambasciata americana di Teheran, mentre un'insurrezione islamista alla Mecca ispirò un'ondata di attacchi contro le missioni Usa in otto paesi a maggioranza musulmana.)
Democrazia. Rifarsi ai bei vecchi giorni "degli ultimi venti o trenta anni" contiene, comunque, un vero messaggio, come fa notare Fouad Ajami. Questa espressione denota «un ritorno alla Realpolitik e un'apertura nonostante tutto ai rapporti con il mondo musulmano». L'agenda di Bush basata sulla libertà è superata da oltre tre anni, adesso, con Obama i tiranni possono tirare il fiato.
E per finire, c'è la questione del legame personale che intercorre tra Obama e l'Islam. Nel corso della campagna presidenziale egli ha biasimato i dibattiti in merito ai suoi rapporti con l'Islam, definendoli come "fomentatori di paura" e ha riprovato quelli che hanno esaminato l'argomento, giudicandoli infamanti. Obama ha così categoricamente scoraggiato l'utilizzo del suo secondo nome, Hussein, che John McCain ha chiesto scusa quando uno speaker radiofonico, prima di un comizio elettorale del candidato repubblicano, ha osato dire "Barack Hussein Obama". Dopo le elezioni le regole sono radicalmente cambiate, con il nome per esteso pronunciato nel giuramento presidenziale e con il neopresidente che dice spontaneamente: «Nella mia famiglia ci sono dei membri musulmani, io ho vissuto in paesi musulmani».
È già abbastanza brutto che i legami familiari con l'Islam siano stati considerati un ostacolo durante la campagna presidenziale per poi immediatamente sfruttarli una volta in carica allo scopo di guadagnarsi la benevolenza dei musulmani. Peggio ancora, come osserva Diana West: «È dai tempi di Napoleone che un leader di una grande potenza occidentale non spezza in modo così imperturbabile una lancia a favore del mondo musulmano».
Ricapitolando, se le ritirata di Obama dal processo di democratizzazione segna uno sfortunato e importante cambiamento nella linea politica, il suo tono di scusa e il chiaro cambiamento dell'elettorato mostrano un cambiamento di principio e di direzione ancor più preoccupante.