Dopo sei giorni di guerra contro l'Iraq, le masse in Medio Oriente sono di fatto silenziose. La Cisgiordania non è in subbuglio, l'ambasciata americana in Giordania non brucia, le strade del Cairo non sono piene di auto ribaltate e le truppe siriane non si ammutinano. Dov'è la rabbia? La sua assenza, soprattutto in quei Paesi alleati degli Stati Uniti, è forse lo sviluppo più sorprendente dall'inizio delle ostilità.
Solo dove le autorità sono favorevoli alle attività antiamericane (Tunisia, Libia, Sudan, Libano e Giordania), si sono verificate proteste significative. Tale quiete è inaspettata perché da agosto si era raggiunto un consenso sul fatto che il governo degli Stati Uniti avrebbe pagato un terribile prezzo politico per fare la guerra a Saddam Husseina. Dal Medio Oriente stesso sono arrivate previsioni spaventose sulla furia dell'antiamericanismo e sul prezzo da pagare da parte degli alleati statunitensi.
In Occidente, i giornalisti hanno fatto eco a questi avvertimenti. Poco prima dello scoppio della guerra, Peter Ford e George D. Moffett III hanno scritto su The Christian Science Monitor: "Anche se Israele non è coinvolto, una vittoria degli Stati Uniti potrebbe scatenare un'ondata di radicalismo politico, minacciando i regimi arabi amici degli Stati Uniti". Robin Wright del Los Angeles Times è andato oltre, descrivendo come futile anche una vittoria degli alleati sull'Iraq. Il suo ragionamento? "Il rapporto costi-benefici a lungo termine su una miriade di altri fronti" è rivolto contro gli Stati Uniti. Molti esperti di Medio Oriente hanno condiviso questi timori. Ann Mosely Lesch dell'Università di Villanova, ad esempio, ha messo in guardia contro il fatto che la guerra contro l'Iraq "risveglierebbe una diffusa opposizione popolare" in Egitto.
Questi analisti sono tutti preoccupati per il riemergere della "strada araba" (le opinioni pubbliche arabe) come un potente fattore nella politica araba. Hanno visto la belligeranza di Saddam Hussein fare di lui un successore di Gamal Abdel Nasser agli occhi di molti arabi, un uomo capace di unire gli arabi e di tenere testa all'Occidente. Poi sono arrivate notizie di rivolte anti-governative e pro-Saddam in Siria, che portavano a pensare all'arrivo di numerosi problemi e il divieto di tutte le manifestazioni di piazza in Egitto, anche quelle a favore delle politiche del governo, stavano a indicare la profondità dei timori nutriti dalle autorità in un altro alleato americano.
Ma le piazze non sono insorte a sostegno di Saddam, almeno non nei primi giorni della guerra, quando sarebbe stato più scontato e più allarmante. Perché gli analisti si sono sbagliati? Cosa sta a indicare la quiescenza per la politica statunitense?
Gli esperti hanno ignorato tre fatti importanti riguardo al Medio Oriente.
- L'apatia prevalente. Per anni, gli arabi non sono insorti per cause transnazionali: prendevano in mano la situazione solo quando una questione era d'interesse personale diretto. Gli arabi si sono dimostrati insolitamente inclini a insorgere contro gli aggiustamenti valutari, i tagli ai sussidi e altre riforme di austerità, come dimostrato dai disordini in Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Sudan e in Giordania. In effetti, si sono guadagnati una reputazione presso il Fondo Monetario Internazionale per la riluttanza a tollerare anche i più modesti adeguamenti economici.
Ma le cause astratte sono un'altra cosa. Un popolo molto deluso non ha più l'energia per scendere in piazza. Gli arabi vivono dal 1967 quello che lo storico Hisham Sharabi definisce un "trauma paralizzante", quando le forze israeliane sconfissero contemporaneamente quelle siriane, giordane ed egiziane in soli sei giorni. Contrariamente alle aspettative di Khomeini, la rivoluzione iraniana non è riuscita a mobilitare i musulmani fondamentalisti in Paesi come l'Iraq e l'Egitto. Paradossalmente, gli israeliani furono gli unici in Medio Oriente a manifestare contro le attività del loro governo nella guerra del Libano del 1982 e nel massacro di Sabra e Shatila. I Versi satanici provocarono sommosse in Pakistan e in India (e tra i loro fratelli in Gran Bretagna), ma non nei Paesi arabofoni. Nella speranza di stimolare più attivismo, i militanti arabi condannano aspramente questa apatia. In un brano memorabile, Halim Barakat, un sociologo, ha scritto che "il mondo arabo si estende attraverso i continenti come un enorme polpo spiaggiato, prosciugato della sua acqua di vita e dell'indignazione".
- La forza bruta dei regimi odierni. Mentre l'Iraq ha l'apparato repressivo più famoso di qualsiasi Stato del Medio Oriente, esistono istituzioni comparabili in quasi tutti i Paesi di lingua araba. Anche governi verosimilmente fragili come quello dell'Arabia Saudita e della Giordania si impegnano in quella che Michael C. Hudson della Georgetown University ha denominato "monarchia del mukhabarat".[apparato di sicurezza]". Nella maggior parte dei casi, i manifestanti non possono scendere in piazza, tanto meno causare danni o sfidare le basi del potere dei regimi. L'intifada nei Territori occupati è la prova non solo della rabbia palestinese, ma anche della tolleranza israeliana nei confronti della protesta politica. Quel poco di dissidenza consentito nelle terre arabe esiste per dimostrare le credenziali liberali del regime. Più spesso, i leader programmano manifestazioni di piazza per rafforzare le loro politiche traballanti, così lo stesso Muammar Gheddafi ha partecipato a un corteo tre giorni fa in Libia.
- Rispetto per un vincitore. Saddam è andato in battaglia trasudando fiducia, minacciando di appiccare un fuoco che avrebbe "divorato metà di Israele" e prevedendo che i soldati americani avrebbero presto "nuotato nel loro stesso sangue". Non è stata la prima volta che molti in Medio Oriente si sono fatti trasportare dalle emozioni del momento. Trascurando l'equilibrio sbilanciato del potere – comprese le sanzioni economiche contro l'Iraq, le forze di ventotto Paesi schierate contro di esso e la schiacciante superiorità delle armi degli alleati – hanno sognato la vittoria. Ora che la guerra è iniziata, alcuni partigiani di Saddam sono intenti a illudersi sul suo corso: ossessionati dall'odio, vedono solo i successi del rais, specialmente i suoi attacchi volutamente non chirurgici contro le città di Israele. (Una madre giordana di due bambini piccoli ha detto al Philadelphia Inquirer : "Non riesco a iniziare a spiegare quanto io sia felice. (...) Non importa se muoio ora. Per la prima volta ho visto vittime a Tel Aviv causate da un Paese arabo".
Ma la realtà sta lentamente prendendo piede. I missili contro Israele hanno finora causato pochissimi danni e solo una manciata di soldati americani ha perso la vita. Al contrario, l'Iraq è soggetto al più pesante bombardamento aereo della storia. Spavalderia a parte, il Medio Oriente è caratterizzato da un forte rispetto per il potere. Il timore di finire dalla parte dei perdenti ha raffreddato l'ardore per la causa di Saddam. Come dice un proverbio arabo rivelatore: "Bacia la mano che non puoi mordere". Oggi, questa è la mano americana.
Il fatto che una guerra guidata dagli Stati Uniti contro l'Iraq non sia riuscita a provocare rivolte ha implicazioni sia per l'operazione Tempesta del Deserto sia per le politiche americane dopo la fine delle ostilità.
L'espressione "Tempesta del Deserto" sta a indicare che le forze americane godono di un margine di manovra maggiore di quanto si pensasse in precedenza. Se il combattimento dovesse portare a sostanziali perdite di vite da parte irachena, i generali americani non devono sentirsi limitati dalle preoccupazioni per le reazioni in Medio Oriente. L'occupazione di una città come Bassora, nel sud dell'Iraq, dovrebbe essere possibile per almeno qualche settimana.
Per quanto riguarda il periodo postbellico, ipotizzando che prevalgano le forze alleate, va rilevato che il governo degli Stati Uniti eserciterà un'influenza straordinaria in Medio Oriente per mesi. Lungi dall'essere infuriati con gli americani, gli arabi li rispetteranno più che mai, perché abbiamo fatto quello che avevamo detto che avremmo fatto. A quel punto, l'obiettivo fondamentale per il governo degli Stati Uniti sarà quello di sfruttare un'opportunità effimera, e non di sprecarla, come accadde l'ultima volta che esisteva una tale possibilità, alla fine del 1982. Poi, i successi di Israele in Libano offrirono al governo degli Stati Uniti la possibilità di ricostituire il sistema politico libanese malato. Ma anziché cogliere questa opportunità Washington mise da parte il Libano e annunciò il Piano Reagan per risolvere il pasticcio in Cisgiordania. Il Piano Reagan non portò a nulla, ma quando questo divenne evidente, era passato il momento di cambiare le cose in Libano.
Purtroppo, i risultati diplomatici dell'amministrazione Bush degli ultimi due anni evidenziano che, dietro le forti pressioni saudite, verrà ripetuto questo errore e, una volta cessate le ostilità, si rivolgerà l'attenzione al conflitto arabo-israeliano. Sarebbe una tragedia. Occorrerebbe invece concentrarsi sulla risoluzione delle questioni nel Golfo Persico. E non solo. Sarebbe opportuno anche assicurarsi che l'Iraq sia stabile, difendibile e non bellicoso; che il Kuwait non debba più temere l'invasione; e che esista un equilibrio di potere nel Golfo tra Iraq e Iran. Il raggiungimento di questi obiettivi è necessario per assicurare che vite e risorse americane non siano state sacrificate invano.