Dorman (un docente di giornalismo) e Farhang (il primo ambasciatore di Khomeini alle Nazioni Unite) non possono accettare il fatto che la stampa americana accetti in generale le premesse di base della politica estera del governo Usa. Attribuendo questa infelice coincidenza al persistere di "una mentalità da guerra fredda", gli autori rilevano che essa ha portato a una copertura mediatica dell'Iran "in genere disinformata e spesso assai etnocentrica" per quanto concerne il periodo trattato nel loro volume: gli anni che vanno dal 1951 al 1978. Argomentando contro ciò che chiamano "la sinistra convenzionale", Dorman e Farhang negano l'importanza fondamentale delle considerazioni di natura commerciale per impostare l'agenda del giornalismo. Secondo gli autori la vera chiave è l'attaccamento sconsiderato del giornalista all'obiettività e l'allergia all'ideologia. "Il più grande ostacolo che i giornalisti americani dovranno superare prima di occuparsi con successo delle questioni estere è la convinzione di non seguire rigidamente un'ideologia". In breve, Dorman e Farhang vogliono trasformare il New York Times in una versione quotidiana di The Nation.
Purtroppo per loro, questo non accadrà mai, perché l'opinione pubblica di una democrazia liberale di fronte alla minaccia sovietica non accetterà di rifiutare le politiche che appoggia da oltre quarant'anni. E se per caso il Times avesse apportato i cambiamenti voluti dagli autori, esso avrebbe rapidamente perso il suo ruolo di autorevole opinion leader. Gli obiettivi di questo libro sono impossibili e dannosi.