A prima vista, sembra che Frankel abbia aggiunto un altro libro alla serie di opere editoriali su Israele e sugli arabi scritte da giornalisti americani di spicco. Ma questo volume è diverso da quelli di David Shipler e Thomas Friedman per due motivi: innanzitutto, il suo argomento non è il conflitto arabo-israeliano ma Israele e, in secondo luogo, il volume è permeato da una tesi peculiare. E il titolo chiarisce bene questa tesi: con "Oltre la Terra Promessa", l'autore intende dire che Israele, come una crisalide, sta per emergere dal suo stadio sionista ("un piccolo Stato-guarnigione collettivista e sotto assedio") e sta per entrare qualcosa di molto differente ("un paese più aperto, pluralista, borghese e democratico"). L'autore accoglie favorevolmente questo "nuovo Israele", come lo definisce, sostenendo che è "molto più vicino al destino benigno che Herzl e gli altri avevano inizialmente previsto" per lo Stato ebraico. Egli attinge ai suoi tre anni di soggiorno in Israele dal 1986 al 1989 e ai viaggi successivi nel Paese per fornire un'argomentazione vivace e imperniata sulla cronologia a conferma di questa tesi, dettata dalla sua predilezione per l'argomento e da una certa familiarità con esso.
Fin qui tutto bene. Ma il resoconto di Frankel ha una pecca che impregna il libro e riduce notevolmente il suo valore: l'autore ha una visione fortemente partisan della politica israeliana, mostrando ammirazione per il Partito Laburista e ostentando quasi disprezzo per il Likud. In un brano tipico, egli sostiene che il cambio di governo del 1992 abbia segnato la fine della "dominazione della destra del Likud" e siglato "un ritorno al governo più pragmatico e meno ideologico del Partito Laburista di centro-sinistra". Oltre la Terra Promessa sarebbe stato un libro decisamente migliore se l'autore non fosse stato vittima dei suoi pregiudizi.