La fine ufficiale della guerra americana in Iraq, il 15 dicembre scorso, rende il vicino Iran un fattore importante e imprevedibile nelle presidenziali Usa del 2012. Innanzitutto, uno sguardo al passato: i mullah iraniani hanno già avuto nel 1980 l'opportunità di influire sulla politica americana. Il sequestro degli ostaggi dell'ambasciata Usa a Teheran per 444 giorni ha tormentato la campagna per la rielezione del presidente Jimmy Carter e ha contribuito alla sua sconfitta – grazie anche a iniziative come la Rose Garden strategy, una fallita operazione di salvataggio e a un programma televisivo dell'ABC America Held Hostage. L'Ayatollah Khomeini ha vanificato le speranze di liberazione degli ostaggi, evitando un colpo a sorpresa da parte dell'amministrazione Carter a pochi giorni dalle elezioni e ha rigirato il coltello nella piaga liberandoli esattamente il giorno dell'insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca. Oggi, l'Iran può giocare due potenziali ruoli nella campagna per la rielezione di Obama: come disgregatore in Iraq o come obiettivo degli attacchi Usa. Esaminiamoli entrambi.
Il presidente Jimmy Carter e Barak Obama potrebbero condividere una sfida iraniana alla loro rielezione. |
Chi ha perso in Iraq? Anche se l'amministrazione di George W. Bush ha siglato l'accordo sullo status delle forze con il governo iracheno, sulla base del quale «Tutte le forze americane lasceranno completamente il territorio iracheno entro il 31 dicembre 2011», la decisione di Obama contraria al mantenimento di forze residue in Iraq ha fatto sì che il ritiro delle truppe diventasse sia una sua scelta che un suo onere. Questo lo mette a rischio: se le cose dovessero andare male in Iraq nel 2012, lui, e non Bush se ne assumerebbe la responsabilità. La guida suprema dell'Iran, Ali Khamenei, in altre parole, può rendere insopportabile la vita di Obama. Khamenei ha molte opzioni: può esercitare un maggiore controllo su quei numerosi dirigenti iracheni che sono degli islamisti sciiti filo-iraniani, alcuni dei quali hanno vissuto in esilio in Iran; ad esempio, il premier, Nouri al-Maliki, rientra in questo paradigma. Gli iraniani possono anche influenzare la politica irachena con i servizi d'intelligence del Paese, in cui già si sono sostanzialmente infiltrati. Oppure Teheran può mandare delle truppe iraniane in Iraq a tempo indeterminato, al posto di quelle decine di migliaia di soldati americani che ora hanno lasciato la frontiera orientale irachena, creando una forte tensione. E per finire, gli iraniani possono appoggiare persone come Muqtada al-Sadr o inviare direttamente dei terroristi. Nel 1980, gli iraniani hanno manipolato il processo politico americano con la presa degli ostaggi; nel 2012 potrebbero riuscirci con l'Iraq. Se i governanti iraniani decidessero di piantare grane prima del 6 novembre, il candidato repubblicano accuserà Obama di "aver perso in Iraq". E vista la lunga opposizione di Obama alla guerra, questo lo metterà in difficoltà. In alternativa, gli iraniani possono cambiare marcia e mettere in atto la loro minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz per mettere in pericolo il 17 per cento del petrolio mondiale che passa attraverso quella via di navigazione, creando così un'instabilità economica globale.
Gli Ayatollah Khomeini e Khamenei hanno in comune l'opportunità di influire sulle presidenziali americane. |
Nel 1980, i mullah decisero di intralciare la strada di un leader democratico indebolito e potrebbero farlo di nuovo; oppure potrebbero decidere che Obama sia il male minore e desistere. Il punto è che il ritiro delle truppe offre loro altre opzioni. Può darsi che Obama si pentirà di non averle tenute lì fin dopo le elezioni, scelta che peraltro gli avrebbe permesso di dire: «Ho fatto del mio meglio». Sul tavolo c'è anche la possibilità di bombardare gli impianti nucleari iraniani. Quasi due anni fa, quando Obama conservava la maggioranza (seppur risicata, un + 3 per cento) tra gli americani, feci notare che un attacco Usa contro gli impianti iraniani avrebbe fatto dimenticare il suo primo e inconcludente anno alla Casa Bianca e virato la scena politica interna a suo favore. Con una sola azione, avrebbe, infatti, protetto gli Stati Uniti da un nemico pericoloso e ridisegnato la corsa elettorale. Perché un attacco avrebbe accantonato la riforma sanitaria, indotto i repubblicani a lavorare con i democratici, fatto protestare i netroots, provocato un ripensamento fra gli indipendenti e mandato in brodo di giuggiole i conservatori. Oggi, mentre la popolarità di Obama affonda al -4,4 per cento e le elezioni dominano già lo scenario interno a meno di un anno dal voto, il presidente è sempre più incentivato a bombardare l'Iran, un'ipotesi pubblicamente discussa da una pittoresca gamma di personaggi americani (Sarah Palin, Pat Buchanan, Dick Cheney, Ron Paul, Elliot Abrams, George Friedman, David Broder, Donald Trump) e non (Mahmoud Ahmadinejad, Fidel Castro). Assistenza sanitaria, impiego e debito pubblico offrono al presidente poca consolazione, la sinistra è delusa e il voto indipendente è a disposizione di tutti. Le attuali scaramucce sulle sanzioni e i droni potrebbero essere una mera distrazione: un attacco agli impianti iraniani avrà presumibilmente luogo nella prima metà del 2012, insomma non troppo vicino alle elezioni americane. In conclusione: Khamenei e Obama possono crearsi non pochi problemi. Se lo facessero, l'Iran e l'Iraq diventerebbero i temi centrali della corsa alle presidenziali, continuando così a giocare il ruolo trentennale di pupazzi di cartapesta della politica americana.