Un produttore televisivo mi telefonò e mi disse che un aereo si era schiantato contro il World Trade Center, allora corsi in soggiorno e vidi in diretta televisiva il secondo aereo schiantarsi in tempo reale, poi mi recai di gran carriera negli studi dell'emittente televisiva, andai in onda di tanto in tanto, e per la maggior parte rimasi seduto in un tetro ufficio [degli studi televisivi] a scrivere, pieno di rabbia, un articolo ("U.S. Failure") sugli errori della politica americana che National Review Oline pubblicò quello stesso pomeriggio.
Due reazioni contrarie si alternavano in me quell'11 settembre: avevo un cuore gonfio di pena e di dolore per le 7.000 vittime (secondo le prime stime) ed ero travolto da un turbinio d'idee in merito alle implicazioni strategiche, ma soprattutto nutrivo la speranza che gli americani concentrassero la loro attenzione sulla minaccia islamista.
La seconda reazione mi offriva qualche consolazione. Diversamente dalla maggior parte degli americani, io mi sentivo più al sicuro l'11 settembre, perché mi aspettavo che le atrocità di quel giorno avrebbero finito per richiamare l'attenzione dei miei connazionali sul grido di battaglia "Morte all'America" da parte di un movimento [quello islamista] che aveva già mietuto circa 800 vittime dal primo attacco lanciato nel 1979 contro l'ambasciata americana a Teheran.
Per quanto incompleta, questa consapevolezza c'è stata. La reazione anti-islamista ora in corso assicura che le vittime dell'11 settembre non sono morte invano.