La vittoria più schiacciante negli annali bellici ha avuto luogo nel giugno di 35 anni fa, quando le forze israeliane sconfissero gli eserciti egiziano, giordano e siriano in soli sei giorni. E questo [mese di] giugno è contraddistinto dalla pubblicazione di Six Days of War: June 1967 and the Making of the Modern Middle East (Oxford University Press) [N.d.T. La guerra dei sei giorni-Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano, Milano, Mondadori, 2004] di Michael Oren, il più bel libro su quest'argomento.
Oren, uno studioso israeliano d'origine americana, racconta la sua storia, in modo semplice, diretto e avvincente, piena di citazioni vibranti.
Six Days of War (La guerra dei sei giorni) beneficia di fonti in sei lingue ed è il primo resoconto a fare affidamento sugli archivi di Stato aperti di recente, che permettono alla narrazione di fornire una storia segreta prima sconosciuta, compresi un certo numero di scoop (come i piani arabi per conquistare Israele; o il modo in cui gli ordini del ministro della Difesa Mohe Dayan di impossessarsi delle alture del Golan violarono il suo mandato). Non sorprende affatto che il volume sia un bestseller americano ancora prima della sua uscita ufficiale.
Molti sono ancora gli interrogativi insoluti sulla guerra del '67, e Oren fornisce delle informazioni utili per trovare una risposta. Ecco tre spiegazioni chiave.
Perché la guerra ha avuto luogo? La domanda si pone perché, come per la Prima guerra mondiale, nessuno ha previsto né voluto questa guerra. La ricerca di Oren offre un'idea del suo carattere certamente accidentale. Nel novembre 1966, ad esempio, dopo l'uccisione di tre poliziotti israeliani per mano di terroristi, residenti in Giordania, l'ambasciatore americano in Israele – solitamente efficiente – attese alcuni giorni prima di trasmettere un messaggio di condoglianze da parte di Re Hussein di Giordania al premier israeliano. Il suo ritardo scatenò la reazione degli israeliani, e questa reazione, a sua volta, divenne un importante episodio nell'escalation bellica.
In questi giorni bisogna concentrare l'attenzione sul ruolo degli avvenimenti fortuiti, mentre i venti di guerra tornano a soffiare in Medio Oriente: anche il più piccolo passo falso potrebbe provocare un'esplosione.
Le Forze di difesa israeliane come hanno potuto riportare una vittoria così schiacciante? Grazie a un meticoloso esercizio della professione e a un assoluto realismo, contrariamente ai militari arabi che vivevano in un mondo immaginario.
Se alla vigilia della guerra gli israeliani erano un fascio di nervi – il capo di Stato Maggiore Yitzhak Rabin aveva un esaurimento nervoso – i leader arabi erano molto sicuri di sé. Un generale siriano predisse una vittoria su Israele in quattro giorni "al massimo". Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser non mostrò nessuna preoccupazione, insistendo sul fatto che gli israeliani erano incapaci di sferrare quell'attacco aereo a sorpresa che, di fatto, misero a segno.
Più in generale, un alto funzionario egiziano disse in merito alla leadership della propria parte che essa pensava che "la distruzione di Israele era un gioco da ragazzi che necessitava solo di allacciare qualche linea telefonica nell'abitazione del comandante e di scrivere degli slogan di vittoria".
(Washington, ironia della sorte, confidava più di Tel Aviv in una vittoria israeliana; Oren asserisce che due settimane prima che la guerra scoppiasse il segretario americano alla Difesa aveva predetto che se Israele si fosse mosso in anticipo avrebbe battuto i suoi tre nemici nel giro di una settimana – esattamente ciò che accadde.)
In che modo la guerra ha inciso sulla diplomazia arabo-israeliana? Ne ha sostanzialmente cambiato i termini. Già a metà maggio, settimane prima dell'inizio delle ostilità, Harold Saunders, assistente per il Medio Oriente alla Casa Bianca, suggerì che a Israele andava lasciato il tempo di sconfiggere i suoi nemici, vedendo in questo un modo "per fissare e regolare i confini e forse anche i rifugiati".
Il secondo giorno di guerra, il presidente Lyndon Johnson aveva formulato le linee generali della politica "terra in cambio di pace" che 35 anni più tardi la diplomazia americana conduce ancora riguardo al conflitto arabo-israeliano, il che significa che Israele deve restituire la terra conquistata nel 1967 in cambio del suo riconoscimento da parte degli arabi.
Gli americani contavano sulla portata del trionfo militare di Israele per mostrare agli arabi la vacuità delle loro speranze di distruggere lo Stato ebraico, un'analisi che riscontrò l'immediata approvazione da parte di alcuni israeliani (compreso Yitzak Rabin, il premier che anni dopo ha avviato i negoziati di Oslo, che sono stati fondati esattamente su questa ipotesi).
Ma come i recenti avvenimenti hanno chiaramente dimostrato, la premessa della "terra in cambio di pace" era falsa. Con solo qualche eccezione (come il presidente egiziano Anwar as-Sadat), la buona volontà d'Israele di apportare questo cambiamento ha accelerato la violenza degli arabi contro lo Stato ebraico e non il suo riconoscimento. Oren mostra come la politica della "terra in cambio di pace" fosse basata sulle speranze americane e non sulle realtà mediorientali; la sua ricerca indica che questa politica deve essere definitivamente rimpiazzata da un approccio più pragmatico.
Come suggerisce il sottotitolo del libro di Oren, quei sei giorni di guerra hanno avuto delle conseguenze veramente profonde.