Tutto è cominciato quando, alla fine del 1985, lessi delle accorate lagnanze sulla stampa kuwaitiana. Esse non avevano senso a quell'epoca: le autorità americane come avrebbero potuto fare pressione sul governo kuwaitiano perché questo liberasse dei terroristi riconosciuti colpevoli e condannati, contraddicendo ogni cosa che allora si sapeva sulla politica americana? Non sapendo cosa fare di quella documentazione, l'ho archiviata.
Naturalmente, un anno dopo, tutto questo aveva senso. Quando le transazioni americane della vendita di armi in cambio della liberazione di ostaggi divennero pubbliche, io recuperai la documentazione kuwaitiana e pubblicai un articolo sul Wall Street Journal in cui spiegavo come il governo Usa avesse cercato di rilasciare dei terroristi riconosciuti colpevoli e condannati. L'articolo notava altresì che le autorità kuwaitiane avevano opposto resistenza ai nostri tentativi come pure a un'ampia gamma di sfide terroristiche – compreso un attacco contro i loro impianti petroliferi e un tentativo di assassinare il sovrano del Kuwait. Valutai positivamente le azioni kuwaitiane, paragonandole alle spacconate vane sul terrorismo provenienti dalle autorità americane, israeliane e dell'Europa Occidentale – che di recente avevano tutte rabbonito i terroristi. L'articolo finiva rendendo omaggio al vero onore arabo dell'emiro del Kuwait.
La column aggiungeva qualche nuova informazione sullo scandalo della vendita di armi [all'Iran] in cambio della liberazione degli ostaggi [americani] e cercava di rendere noto che almeno un governo aveva rispettato i suoi principi. Non mi era venuto in mente che i kuwaitiani potessero prestare attenzione all'articolo. Tuttavia, lo fecero, e divenne in pochi giorni il pezzo più letto in Kuwait. Ad esempio, As-Siyasa gli dedicò il seguente titolo a tutta pagina in prima: "L'emiro Jabir, l'unico sovrano che rifiuta di trattare con i terroristi: posizione che rappresenta il vero onore arabo". Altri giornali fecero altrettanto.
Come asseriva un articolo del Washington Post, "Per due giorni, il contenuto della column ha avuto risonanza nella televisione di stato e alla radio, mentre è stata prestata la minima attenzione alla lettera personale inviata dal presidente Reagan all'emiro Jabir Sabah". Ciò mi fece sorridere: ci insultano quando possono e i governi stranieri continuano a dare grande importanza all'opinione degli americani.
Misi via questi ritagli come una curiosità e dimenticai l'episodio. Fu a dir poco una sorpresa ricevere una lettera dall'ambasciatore del Kuwait a Washington, che m'invitava a recarmi nel suo Paese come ospite del Ministro dell'Informazione. Da molto tempo ero curioso di conoscere il Kuwait, pertanto, accettai.
In volo dagli Stati Uniti, si arriva in Kuwait da nord-ovest, attraverso l'immenso deserto arabo totalmente disabitato. Dopo due ore in cui non si vede nulla, se non un terreno vergine, solo negli ultimi secondi prima dell'atterraggio compaiono il mare blu e le irregolarità angolari di una città di costruzione molto recente. Dal cielo, la città sembra grigia, senza forma e anonimamente moderna.
Attraversare Kuwait City (dove vive il 90 per cento degli abitanti del Kuwait) conferma questa impressione. La città è molto moderna e anonima. Le strade sono immense, efficienti e pulite; i negozi ben illuminati e moderni. In pratica, ogni traccia dei vecchi edifici, delle mura urbane e delle strade è stata eliminata. Tutto ciò che ha più di vent'anni è considerato una vestigia. Per immaginare il Kuwait, bisogna togliersi dalla mente le idee dei bazar, delle cittadelle e delle strade strette; questo posto assomiglia a Houston molto più delle vecchie città mediorientali. In realtà, la similitudine di queste due città va oltre l'architettura e l'urbanistica: il Kuwait condivide con Houston un clima infuocato e la quasi totale assenza di storia manifesta. Entrambi si sono sviluppati con il boom petroliero degli anni Settanta e soffrono della sovrabbondanza degli anni Ottanta.
Ciò che è di reale interesse in Kuwait – e ciò che lo rende diverso da Houston – è la sua popolazione. La geografia e la storia impallidiscono in confronto all'eccezionale vita economica e sociale del Kuwait. Quello che Balzac ha definito la commedia umana è visto qui in una delle sue più singolari forme. I kuwaitiani sono una popolazione che fino agli anni Quaranta ha vissuto in un piccolo mondo delineato dall'Islam, dal deserto, dalla pesca tradizionale e alle perle, e da un po' di commercio. Il paese era una zona sperduta, un posto povero e semplice che aveva poco da offrire al mondo industrializzato e a malapena influenzato da questo. Poi, all'improvviso il petrolio ha spinto i kuwaitiani nel vortice dell'economia mondiale, li ha resi ricchi, ha dato loro il potere e li ha sommersi di cultura occidentale.
Mi aspettavo che il Kuwait fosse una società noiosa e parassita, dove i lavoratori stranieri fanno tutto il lavoro, i cittadini poltriscono nel lusso decadente e non accade nulla di grave. Le mie attese non erano interamente sbagliate, ma il paese è straordinariamente bello e interessante.
Naturalmente, la prima cosa da sapere sul Kuwait è che esso possiede un'immensa riserva petrolifera nascosta sotto la sabbia. Queste riserve sono ora stimate a 10milioni di tonnellate, ed è la seconda riserva più grande al mondo dopo i 16milioni di tonnellate dell'Arabia Saudita. (Invece, gli Usa ne hanno solo 4milioni di tonnellate.) L'altra cosa da sapere è che i non-kuwaitiani eseguono delle trivellazioni, raffinano, trasportano e consumano questo petrolio. I kuwaitiani contribuiscono poco, tranne che per le materie prime all'industria che li sostiene.
Da lontano, mi aspettavo che il carattere del denaro del Kuwait non guadagnato col sudore della fronte, e che influenza ogni aspetto della vita qui, permeasse altresì la coscienza del paese. È stata una vera sorpresa apprendere che i kuwaitiani quasi disconoscono questo fatto. Un turbinio di attività – discutere di guerra, trattare di affari, andare alle feste, fruire dei generi di consumo – rendono l'artificialità della loro ricchezza un punto vago e piuttosto teorico. Se un visitatore arriva in Kuwait senza conoscere la fonte della ricchezza del paese, potrebbe metterci settimane o anche mesi per capirlo.
I dati demografici del Kuwait sono a dir poco insoliti. Il numero dei cittadini ammonta a 600.000; i lavoratori espatriati sono il doppio di quella cifra. I dati recenti indicano che l'82 per cento della popolazione attiva consta di stranieri; anche tra gli impiegati governativi (l'occupazione preferita dai cittadini), due terzi sono stranieri. Inoltre, i cittadini se la prendono comoda con gli orari lavorativi; in teoria, gli uffici sono aperti dalle 7,30 alle 13,00, ma non ho mai avuto un incontro prima delle 10,00.
I lavoratori arrivano da 130 paesi e si ripartiscono le attività. Ad esempio, nell'hotel Meridien, dove ho soggiornato, gli egiziani e i libanesi lavoravano alla reception (perché possono parlare arabo, inglese e francese), i filippini servono i pasti e gli indiani puliscono le stanze. Pochi lavoratori non-arabi parlano l'arabo, ma quasi tutti sanno l'inglese e sono così numerosi che l'inglese è diventato una lingua franca. In effetti, il cittadino kuwaitiano che non parla l'inglese è in grave difficoltà quando vuole fare degli acquisti, se deve impartire ordini ai suoi domestici o anche se deve fare una querela e presentare un reclamo alla polizia. Non c'è da meravigliarsi se il kuwaitiano si senta minacciato culturalmente e si lamenti della presenza degli stranieri, pur beneficiando dei vantaggi del loro lavoro.
Avere la nazionalità kuwaitiana è come essere un aristocratico. Quanto scritto da Aristotele che ogni uomo ha bisogno di uno schiavo si applica al Kuwait, salvo che ogni uomo, donna e bambino ha in realtà due domestici. I cittadini emanano una sensazione di benessere e superiorità, di familiarità e di facilità a comandare. Questa è gente abituata a impartire ordini e a ottenere il meglio.
Il Kuwait è per eccellenza la società delle rendite. Contrariamente agli altri membri dell'Opec, che dipendono ancora dalla vendita del petrolio per le entrate, i kuwaitiani sono così dediti al risparmio che ora ricavano molto di più dagli investimenti che dai proventi petroliferi. Questo permette loro di sopportare meglio il calo dei profitti petroliferi rispetto ad altri paesi esportatori. Mai prima di adesso nella storia umana un'intera popolazione è dipesa finanziariamente principalmente dagli investimenti. Mai un intero paese ha beneficiato della ricchezza prima di riuscire a creare quella ricchezza. Si può considerare il Kuwait come un esperimento molto prezioso da esaminare per gli studiosi di scienze sociali, o meglio ancora come una creazione unica che aspetta di essere analizzata e spiegata dai romanzieri.
Il Kuwait ha una vita politica reale, anche se sobria, che ha il suo centro nell'istituzione tradizionale chiamata diwaniya. Ogni uomo che abbia i mezzi per farlo può costruirsi una diwaniya, un'ampia sala con poltrone e divani dove quasi ogni sera sono ospitati gli uomini kuwaitiani. La moltitudine di persone che una diwaniya attira dipende dalla posizione sociale dell'ospite. Si passa gran parte del tempo a fare pettegolezzi, a raccontare barzellette e a concludere affari, ma la politica è il tema dilagante. Le diwaniya sono i tribunali dell'opinione pubblica in Kuwait, che naturalmente non rivestono una posizione ufficiale né hanno nessun potere, ma offrono un meccanismo per trasferire le informazioni. E in una società di aristocratici, circondati da vicini predatori e superati in numero dagli stranieri, questa opinione sembra contare.
Sono partito dal Kuwait con due impressioni dominanti. Innanzitutto, un'immensa ricchezza permette ai kuwaitiani di avere un'insolita fiducia verso la civiltà occidentale. In questo, assomigliano ai giapponesi. Non importa che il Giappone sia arrivato dov'è grazie allo sforzo degli autoctoni e il Kuwait grazie ai pagamenti per il petrolio: il risultato è analogo. Entrambi sono liberi di scegliere alle loro condizioni ciò che vogliono dall'Occidente; ciò che manca è quella sensazione di pressione persistente che tanto affligge i paesi poveri. Il risultato è una fiducia, una facilità a muoversi avanti e indietro tra le culture e un'apertura verso gli occidentali.
Ciò significa pure che i kuwaitiani, come i giapponesi, possono conservare quello che vogliono della loro cultura. Gli uomini indossano le caratteristiche vesti arabe morbide e non si sono mai infilati una camicia e un paio di pantaloni come nel resto del Medio Oriente. Uomini e donne continuano a condurre vite separate e non sono spinti a stare insieme dagli imperativi economici. La diwaniya continua ad andare forte. E I kuwaitiani, i discendenti urbani degli abitanti delle tende beduini, continuano a prediligere la vita del deserto, trascorrendo spesso le loro vacanze accampati sulla sabbia.
In secondo luogo, la visita mi ha palesato per quale motivo generazioni d'inglesi e di americani hanno trovato le società del deserto così affascinanti. Ciò non mi è mai stato chiaro nel corso dei miei tre anni trascorsi al Cairo, una città molto più complessa, ma al contempo più occidentalizzata. I beduini sono generosi e hanno un comportamento tipico delle classi sociali più elevate che contrasta fortemente con la monotonia dei modi di fare democratici. I governanti danno prova di generosità in uno stile che ricorda le Mille e una Notte. Il vecchio adagio sull'americano che ha detto allo sceicco quanto ammirasse i circoli di golf dello sceicco – e poi non ha ricevuto una sacca da golf dei circoli, ma l'atto di proprietà di un circolo di golf di diciotto buche – non sembra affatto un'esagerazione.
Il mio ospite, il ministro dell'Informazione, è un membro della famiglia regnante (in Kuwait si evita il termine "reale") e un potenziale governante del paese. Conosciuto come lo Sceicco Nasser, egli è un aristocratico socievole ed energico – il vero modello di un leader arabo. Ha organizzato tutto senza badare a spese: automobile, autista e scorta per tutto il tempo, un calendario fitto d'incontri con i ministri e altri notabili, ed inviti a ricevimenti pubblici e privati. Lo sceicco ha organizzato in mio onore nel deserto un sontuoso pranzo in stile beduino e poi mi ha ricoperto di regali alla mia partenza.
L'ultimo interrogativo da porsi riguardo al Kuwait e ad altri paesi esportatori di petrolio è il seguente: Che cosa hanno da mostrare per le centinaia di miliardi di dollari estratti con enorme sofferenza da gran parte della popolazione mondiale? Che fanno in cambio? C'è qualcosa di cui beneficerà l'umanità?
Finora i risultati sono scarsi. Il successo consiste nel permettere di poter fare la bella vita in una delle regioni più inospitali al mondo. Vanno a ruba le merci vendute nei negozi di lusso all'ultimissima moda con succursali a Roma, New York e Kuwait City. I generi alimentari arrivano da paesi come la Nuova Zelanda, il Sudan, la Francia e l'Argentina. L'aria condizionata è onnipresente. Ci sono più automobili dotate di telefoni qui che a Manhattan.
Ma c'è qualcosa che va oltre le belle case, dei marchi e della servitù? Sì. Ci sono le ambizioni di realizzare qualcosa, di avere un ruolo costruttivo. Gli sforzi includono un'università, un istituto di ricerca scientifica, un museo, un ospedale specializzato in medicina islamica (potrebbe essere qualunque cosa: nessuno ha saputo spiegarmi il concetto) etc. L'istruzione si è sviluppata: ciò mi ha sorpreso, ma il Kuwait vanta degli intellettuali colti e molto ben informati. Infatti, con il crollo del Libano il Kuwait è diventato un importante centro culturale per tutti i paesi arabofoni. È il migliore degli Stati produttori di petrolio per il lavoro, suscita l'interesse dei visitatori stranieri di passaggio, e molti cittadini [kuwaitiani] viaggiano all'estero. Il magazine arabo più letto Al-'Arab viene dal Kuwait e la versione araba di Sesame Street nasce qui.
Benché prevalga il consumismo, c'è un'opportunità – una di gran lunga migliore rispetto a quella che avrei mai potuto ipotizzare a distanza – che qualcosa di utile uscirà da questo esperimento molto prezioso.