La caduta del governo in Israele implica che gli sforzi promossi dagli Stati Uniti per riconciliare gli israeliani e i palestinesi saranno ritardati per mesi. Piuttosto che considerare questo periodo di stallo come del tempo sprecato, lo si potrebbe utilizzare per rivedere il processo di pace nel suo insieme.
Esistono però due grossi problemi. Innanzitutto, anche se i palestinesi dovessero accettare un accordo, essi sono troppo deboli per interrompere il conflitto degli arabi con Israele. In secondo luogo, le prove fornite evidenziano che l'unica soluzione che li soddisfi è la distruzione dello Stato ebraico. Complessivamente, i tentativi di negoziare un accordo tra israeliani e palestinesi sono destinati a fallire. Di conseguenza, gli sforzi diplomatici americani potrebbero essere meglio orchestrati verso i Paesi arabi.
L'appoggio delle capitali arabe è molto più importante per ottenere il successo di un accordo rispetto all'appoggio dato dagli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza o dall'Organizzazione per la liberazione della Palestina. I Paesi arabi cercano ancora di controllare in parte o in toto la Palestina, anche se ora mascherano questa intenzione. Le ambizioni giordane e siriane sono molto evidenti: i loro leader di fatto considerano legittimamente la Palestina come una parte dei loro patrimoni. L'Olp ha poco potere indipendente contro simili ambizioni.
Né Arafat può imporre la sua volontà agli innumerevoli gruppi palestinesi che non accettano la sua leadership.
Un ipotetico esempio fa comprendere la debolezza di Arafat. Supponiamo, che per qualche miracolo, lui e gli israeliani arrivino a pervenire a un pieno accordo sull'autogoverno palestinese. Cosa potrebbe cambiare? Non molto. I missili siriani e i soldati giordani rimarrebbero in loco, come pure perdurerebbe la pace fredda con l'Egitto, mentre gli elementi dell'Olp contrari ad Arafat continuerebbero a partecipare ad attività terroristiche. L'Intifada probabilmente andrebbe avanti, anche se indebolita.
Invece, supponiamo che il siriano Hafez al-Assad sigli un accordo di pace con gli israeliani. In tal caso, la guerra tra stati della regione giungerà al termine perché Amman seguirebbe subito l'esempio di Damasco. Qualcuno dei gruppi palestinesi che godono dell'appoggio siriano accetterebbe Israele, come farebbe Arafat. Anche se gli estremisti palestinesi continuerebbero a insorgere, il conflitto diventerebbe molto meno pericoloso.
Pertanto. È un errore concentrare l'attenzione sui palestinesi. Come rileva Max Singer, "per Israele fare pace con i palestinesi mentre la guerra araba contro lo Stato ebraico continua sarebbe come fare pace con una mano mentre il resto del corpo cerca di ucciderti". Solo quando la pace è ottenuta a livello statale sarà possibile occuparsi delle aspirazioni palestinesi.
Si presume, cioè, che mai sarà possibile per Israele soddisfare queste aspirazioni senza correre rischi. Perché esiste un secondo problema di capitale importanza con la preoccupazione americana per i negoziati israelo-palestinesi: ed esso presuppone una disponibilità palestinese a mettere in pericolo Israele e a coesistere con esso.
Questo presupposto indispensabile è in palese contraddizione con l'ampia prova in base alla quale la maggior parte dei palestinesi ha sempre cercato e ancora cerca di distruggere Israele. Un sondaggio d'opinione del 1987 condotto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza ha rilevato che il 78 per cento della popolazione appoggiava "uno Stato palestinese democratico in tutta la Palestina", mentre solo il 17 per cento approvava "uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza". I ricercatori che hanno condotto il sondaggio hanno giustamente concluso che "l'attuale leadership dell'Olp è molto più moderata della popolazione palestinese che risiede in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza".
La triste conclusione non può essere evitata: ci può essere o Israele o una Palestina, ma non entrambi. Pensare che due stati possano coesistere stabilmente e in pace nel piccolo territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo deve essere tanto ingenuo quanto ipocrita. Gli ultimi settant'anni hanno insegnato che ci può essere solo uno stato a ovest del fiume Giordano. Quindi, a coloro che chiedono per quale motivo i palestinesi debbano essere privati di uno stato, si può rispondere tranquillamente: dategliene uno e metterete in moto una catena di eventi che condurrà a un'altra serie di eventi che porterà tanto alla sua estinzione che a quella di Israele.
Pertanto, se in passato sembrava che il progresso nel conflitto arabo-israeliano dipendesse dal coinvolgimento dei palestinesi, ora sembra che sia importante tenerli lontano e prestare più attenzione ai Paesi arabi. Sfortunatamente, Washington è talmente insistente sulla necessità di siglare la pace tra gli israeliani e i palestinesi che non incalza più i Paesi arabi ad accettare l'esistenza dello Stato ebraico.
La chiave è la Siria. Per quanto possa essere molto indebolita, essa continua ad essere l'unico avversario più temibile di Israele. Dopo il trattato di pace tra l'Egitto e Israele del 1979, il principale interrogativo diplomatico era: "Chi sarà il secondo a fare pace con Israele?"
Re Hussein di Giordania sa di non avere la forza per farlo: anche i palestinesi sono inadeguati. Se la prima parte araba a fare la pace è stata quella più forte, allora ne consegue che la seconda parte che si deciderà a compiere questo passo sarà quella più forte subito dopo, vale a dire la Siria. E data la "nuova opinione" di Mosca e la disastrosa situazione economica della Siria, il Paese è ora vulnerabile alle pressioni esterne. È arrivato il momento di esercitare tali pressioni.