Dopo decenni di stasi, il Medioriente è in tumulto. Senza focalizzare troppo l'attenzione sui singoli luoghi, esaminiamo gli sviluppi in quattro Paesi chiave.
Muammar Gheddafi in pieno fulgore militare. |
Egitto. Il 19 marzo scorso, il Consiglio supremo delle Forze armate ha promosso un referendum costituzionale che è passato con 77 voti a favore e 23 contrari. Esso ha sortito l'effetto di incoraggiare sia i Fratelli musulmani che gli ultimi rimasti del Partito nazionale democratico di Hosni Mubarak, mettendo però in disparte i laicisti di Piazza Tahrir. Nel farlo, la neo-leadership militare ha confermato le sue intenzioni di non interrompere la sottile collusione di lunga data del governo con gli islamisti. Due fatti rafforzano questa collusione: l'Egitto è stato governato dai militari a partire da un colpo di stato del 1952 e il cosiddetto movimento dei Liberi Ufficiali fautore di quel golpe ha avuto forti legami con l'ala militare dei Fratelli musulmani. Lo spirito di Piazza Tahrir era autentico e potrebbe alla fine prevalere, ma per ora in Egitto non è cambiato nulla con il governo che porta avanti la solita linea semi-islamista di Mubarak.
I "Liberi Ufficiali" nel 1952. Notare Gamal Abdel Nasser seduto all'estrema sinistra e Anwar el-Sadat seduto all'estrema destra. |
Siria. Hafez al-Assad ha governato il Paese per trent'anni (dal 1970 al 2000) con brutalità e impareggiabile astuzia.
Mahmoud Ahmadinejad festeggia Bashar al-Assad a Teheran, nel 2010. |
Quando i venti del cambiamento hanno raggiunto la Siria, le masse urlanti Suriya, hurriya ("Siria, libertà"), non hanno più avuto paura del dittatore bambino. In preda al panico, Bashar ha brandito l'arma della violenza e dell'appeasement. Se la dinastia Assad crollerà, questo avrà delle conseguenze potenzialmente rovinose per la minoranza alawita da cui essa proviene. Gli islamisti sunniti, che occupano una postazione privilegiata per succedere agli Assad, probabilmente ritireranno la Siria dal blocco "della resistenza" guidato dall'Iran, il che significa che un cambio di regime avrà varie implicazioni per l'Occidente e soprattutto per Israele.
Yemen. In questo Paese, sono maggiori le probabilità che vi sia un rovesciamento del regime e che gli islamisti conquistino il potere. Per quanto carente possa essere come autocrate e per quanto possa essere circoscritto il suo potere, l'astuto presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978, in un certo qual modo è stato l'alleato che l'Occidente poteva sperare di avere – nonostante i suoi legami con Saddam Hussein e con la Repubblica islamica dell'Iran – per esercitare il controllo sull'entroterra, contenere l'istigazione e per combattere al-Qaeda. Non avendo saputo gestire le proteste, Saleh si è alienato perfino la leadership militare (dalla quale egli proviene) e la sua stessa tribù Hashid, il che sta a indicare che lui lascerà il potere con scarsa autorità su ciò che ne conseguirà. Data la struttura tribale del Paese, la capillare distribuzione delle armi, la divisione tra sunniti e sciiti, il terreno montuoso e la minacciosa siccità, un'anarchia con sfumature islamiste (come in Afghanistan) si profila come probabile esito. In Libia, in Siria e nello Yemen – ma meno in Egitto – gli islamisti avranno molte più probabilità di espandere il loro potere.
Riuscirà l'ex-musulmano inquilino della Casa Bianca, così irremovibile sul "mutuo rispetto" nei rapporti degli Usa con i musulmani, a tutelare gli interessi occidentali contro questa minaccia?