Ehud Barak è veramente l'uomo di estrema sinistra che sembra essere, il primo ministro che fa più concessioni agli arabi rispetto a qualunque altro dei suoi predecessori? O potrebbe essere un astuto nazionalista che finge di essere un diplomatico?
La seconda idea sembra folle, ma gli offre la possibilità di farsi ascoltare. Secondo degli analisti ben informati, entrando in carica a metà del 1999, Barak sentì dire dai servizi di intelligence che se non avesse dato al siriano Hafez Assad e al presidente dell'Autorità palestinese Yasser Arafat tutto ciò che chiedevano, questi ultimi avrebbero respinto le sue offerte diplomatiche.
Assad insisteva sulla riconquista dei confini siriani antecedenti al 1967; i palestinesi pretendevano la piena sovranità sui loro luoghi sacri a Gerusalemme. Pur arrivando a soddisfare il 95 per cento delle loro richieste, avrebbero detto di no all'intero pacchetto. Secondo questi analisti, Barak ha capito che avrebbe potuto offrire quasi tutto ai suoi interlocutori arabi, sapendo che loro lo avrebbero rifiutato.
Il premier israeliano ha intravisto in ciò un'opportunità indolore di fare delle ampie concessioni, guadagnandosi così una fama di generosità senza mai dover mantenere la parola. Tuttavia, egli avrebbe dovuto fare due cose: fermarsi prima di fare delle offerte tali da essere accettate dagli arabi, e convincere tutti della sua sincerità con qualche grande interpretazione.
Fin dall'inizio del suo premierato, alcuni osservatori hanno nutrito dei sospetti che si trattasse di uno straordinario inganno.
Il Middle East Media and Research Institute ha scritto di Barak che ingannava i siriani fingendo di essere arrendevole per condurli in tal modo in quello che gli stessi siriani hanno definito "una trappola". La sinistra ha coniato l'epiteto "Barakyahu" che mette in rilievo delle similitudini con il suo predecessore Binyamin Netanyahu.
Gli arabi si sono lamentati del fatto che Barak considerava i negoziati come "un lavoro di pubbliche relazioni" (come chiosa il quotidiano siriano A-Thawra). "Non notiamo nessuna differenza tra Barak e Netanyahu", ha commentato Ikrima Sabri, nominato mufti di Gerusalemme da Yasser Arafat. Un columnist giordano ha perfino rimpianto i bei vecchi tempi di Netanyahu.
Un anno dopo, qualche analista è più che mai convinto che Barak sia in segreto un fautore della linea dura.
Il commentatore Yosef Goell ha presentato la sua argomentazione in queste pagine. Egli si chiede in quale altro modo sia possibile spiegare il fatto che Barak accetta di "rinunciare a tutto il Golan [la cui rinuncia avrebbe messo veramente in pericolo Israele] per poi opporsi alla cessione di qualche altro chilometro quadrato?" Ciò ha senso, riflette Goell, solo vedendo la sua apparente generosità riguardo le alture del Golan come "una trappola per l'avido Assad ad alzare la posta oltre qualsiasi limite ragionevole" – e ritrovarsi con niente in mano.
Lo stesso dicasi per Gerusalemme, scrive Goell: Barak sapeva che per quanto generoso sarebbe stato, Arafat non avrebbe accettato. E così, "mettere Gerusalemme sul tavolo dei negoziati è stata una trappola tesa da Barak ad Arafat". Il piano ha funzionato. Barak ha ottenuto il rifiuto che voleva e per giunta anche "la benevolenza del presidente americano Bill Clinton e della sua squadra".
A meno che Barak non confessi tutto, non c'è modo di dimostrare questa tesi. Esistono, tuttavia, elementi di prova che la corroborano. Ad esempio, scrivendo su Ha'aretz, Uzi Benziman fa un resoconto del vertice di luglio tenutosi a Camp David dicendo che gli alleati di Barak pensano che lui "ha fatto una scommessa pericolosa, accettando l'ultima proposta di Clinton, basata sull'ipotesi che Arafat la rifiuterebbe".
Quegli stessi alleati hanno inoltre notato che, a volte nel corso del vertice, "quando sembrava che Arafat e Clinton stessero per raggiungere una qualche forma di accordo (…) il viso di Barak si adombrava e lui veniva preso dall'ansia".
Se ciò fosse vero, questa strategia contribuirebbe a svelare parecchi misteri. Perché, contro il parere di molti della sinistra, Barak insiste sulla necessità di negoziare solo un accordo sullo stato finale (piuttosto che più accordi provvisori realizzabili). Perché Shimon Peres e Leah Rabin lo hanno di recente condannato. Perché Barak insiste, anche dopo il fiasco di Camp David II, con delle nuove proposte per la divisione del Monte del Tempio. E perché egli è estremamente reticente.
Inoltre, la strategia ha tutte le caratteristiche dell'approccio che contraddistingue la lunga carriera di Barak: arrivare al cuore del nemico tramite l'inganno.
Potrebbe essere vero che Barak stia facendo un gioco sofisticato e pericoloso? Il sottoscritto, autore di due libri che respingono le teorie del complotto, è del tutto riluttante a credere che le cose siano diverse da quello che sembrano. Tuttavia…
La diplomazia arabo-israeliana si presta a dei doppi giochi perché i vari leader si trovano sottoposti a un'enorme pressione per appianare le loro divergenze. Se Barak sta veramente fingendo di voler firmare degli accordi con i suoi nemici, non sta facendo nulla di più strano rispetto a quanto fanno da tempo Assad e Arafat.