I negoziati tra i palestinesi e gli israeliani sono quasi falliti. I leader si lanciano insulti piuttosto che stare a trattare. I politici che sono tenuti a cooperare talvolta puntano le loro armi gli uni contro gli altri. Rispetto a quella luminosa giornata di settembre di quasi quattro anni fa, quando Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si trovavano sul prato della Casa Bianca e si stringevano la mano, il tenore di vita dei palestinesi è peggiorato e gli israeliani si sentono meno al sicuro.
Chi è responsabile di questo impasse? Che occorre fare?
Per sapere ciò che l'elettorato americano pensa di questi interrogativi, il Middle East Quarterly ha chiesto alla società che si occupa di indagini demoscopiche John McLaughlin & Associates di condurre un sondaggio il 24-26 giugno scorso ponendo tre precise domande sul processo di pace a un campione rappresentativo di mille elettori iscritti nelle liste elettorali, che dicono di volersi recare alle urne alle prossime elezioni. Le loro risposte mostrano un certo consenso ed esse sono quasi in totale contraddizione con il consenso espresso dai pensatori e dai politici di Washington.
La prima domanda posta riguarda l'accordo concluso in occasione della cerimonia alla Casa Bianca del 1993. A quell'epoca, Israele aveva concesso ai palestinesi un maggiore controllo delle loro stesse vite. In cambio, l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) ha promesso di riconoscere, ora e sempre, l'esistenza dello Stato ebraico. Entrambe le parti hanno tratto un enorme profitto da questo accordo. I palestinesi hanno ottenuto una certa autonomia che potrebbe alla fine condurli alla creazione di un vero e proprio Stato. Gli israeliani hanno guadagnato un'immediata sospensione del terrorismo oltre l'eventuale prospettiva di porre fine all'ostilità araba che li circonda.
Naturalmente, queste speranze sono state disattese. Gli israeliani hanno fatto ritirare le truppe e gli amministratori da quasi tutte le zone abitate dai palestinesi. Ma Arafat non ha mantenuto le sue promesse di eliminare la violenza contro gli israeliani e di riconoscere pienamente lo Stato ebraico. O, almeno, questo è il modo in cui gli americani vedono la situazione. Quando è stato chiesto nel sondaggio se Arafat avesse mantenuto le sue promesse, incluse "la lotta al terrorismo e la prevenzione della violenza" (un passo contenuto nell'accordo di Hebron di gennaio), il campione ha risposto con un margine di quasi quattro a uno (62,1 per cento contro 16,0 per cento, con un margine di errore di più o meno 3,1 per cento) che il leader palestinese non l'aveva fatto.
Sul fatto se egli fosse informato che i palestinesi avevano ucciso cinque cittadini americani dalla cerimonia della Casa Bianca, e che l'Autorità palestinese non aveva perseguito penalmente nessun sospetto per quelle morti, il campione ha dato una risposta ancor più decisa. Con una percentuale di oltre quattro a uno (67,4 per cento contro 15,5 per cento), gli intervistati ritengono che sia importante per il governo americano esigere il trasferimento dei sospetti negli Usa, dove dovrebbero subire un processo per i loro crimini.
E per finire, in quella che forse costituisce la questione cruciale per gli americani, sapere se occorre o no inviare dei fondi ai palestinesi, l'elettorato ha espresso le opinioni più categoriche. Dal 1994, il Congresso ha stanziato ogni anno [una somma] e il presidente Clinton ha firmato un progetto di legge che dona 100 milioni di dollari dei contribuenti americani a Yasser Arafat e all'Autorità palestinese. Al campione è stato chiesto se questi fondi devono essere ancora erogati. Con un margine di quasi venti a uno (85,8 per cento contro 4,7 per cento) gli intervistati si sono dichiarati contrari a un tale aiuto.
Queste risposte inviano un chiaro messaggio alla leadership di Washington: si dovrebbe addossare la colpa ai palestinesi, e non a Israele, dell'interruzione del processo di pace; bisogna fare sul serio, usando la mano pesante contro gli assassini dei cittadini americani, e smettere di inviare il denaro sudato dai contribuenti a degli imbroglioni e a dei tiranni.
Queste opinioni possono sembrare del semplice buonsenso, ma di fatto tutte e tre sono diametralmente in contraddizione con la saggezza convenzionale che prevale tra gli esperti. Questi ultimi incolpano Israele dello stallo dei negoziati e vogliono che esso rimedi al problema. Ad esempio, il presidente Clinton ha dichiarato la settimana scorsa che gli israeliani devono "trovare degli elementi precisi" per dimostrare il loro impegno nel processo di pace di Oslo. Robert Satloff del Washington Institute for Near East Policy, un osservatore bene informato, rileva che "per la prima volta dalla battaglia tra Bush e Shamir sulla questione degli insediamenti israeliani e le garanzie di prestito [nel 1991-92], un consenso crescente in seno 'all'establishment' di politica estera sostiene che il modo più logico per risolvere l'impasse nelle relazioni israelo-palestinesi consiste nel convincere Israele a modificare la sua politica sugli insediamenti".
Proprio nel momento in cui l'establishment se la prende con Israele per la rottura dei negoziati, non mostra alcun interesse a consegnare gli assassini degli americani alla giustizia (per paura che ciò intralcerebbe i negoziati) e vuole convogliare denaro a Yasser Arafat (credendo che ciò farebbe proseguire i negoziati).
Non è la prima volta che gli elettori americani hanno un'idea più chiara di quella che hanno gli specialisti sull'appropriata rotta della politica Usa. La sfida consiste ora nel far sì che i politici e i diplomatici li ascoltino e prestino loro attenzione.