«La soluzione dei due Stati è morta e sepolta, bisogna immaginare soluzioni alternative ». Così Daniel Pipes, direttore del «Middle East Forum» molto ferrato sul clima politico in Israele, descrive «che cosa c'è nella mente di Benjamin Netanyahu » in merito al negoziato con l'Autorità palestinese.
Perché le trattative fra Israele e palestinesi non riprendono?
«In maggio il segretario di Stato Hillary Clinton propose come base per la trattativa il congelamento totale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, trovando il totale consenso di Abu Mazen, ma poi in settembre Washington ha cambiato idea, accettando la proposta di Netanyahu di un congelamento limitato a 10 mesi mentre Abu Mazen l'ha rifiutata. Il rovesciamento di posizione degli Usa è all'origine del corto circuito fra Israele e Anp. Al momento Usa e Israele hanno la stessa posizione mentre l'Anp ne ha una differente».
Quale idea ha Netanyahu di una composizione del conflitto?
«L'ultima proposta che ha fatto è stata quella di far permanere l'esercito israeliano in Cisgiordania dopo l'eventuale nascita dello Stato palestinese. E' da qui che bisogna partire per comprendere Netanyahu».
Perché è così importante?
«Il motivo per cui Netanyahu vuole lasciare contingenti di truppe è evitare il ripetersi del precedente della Striscia di Gaza, dove il completo ritiro israeliano ha consentito ai gruppi terroristici di trasformare quel territorio in una base per lanciare attacchi contro Israele. C'è forte consenso fra gli israeliani su questa richiesta, nessuno vuole una nuova Gaza in Cisgiordania, ma i palestinesi messo la pietra tombale su un negoziato neanche iniziato».
Nelle ultime settimane Netanyahu è andato a piantare alberi in diversi insediamenti affermando che non saranno mai restituiti. Che cosa sta tentando di ottenere con tali iniziative?
«Punta a rassicurare la destra della sua coalizione di governo che si oppone radicalmente al piano di congelamento totale per dieci mesi. Netanyahu sa che il suo governo sopravvive grazie al sostegno del Likud e dei partiti di destra e vuole provare loro con i fatti che non intende restituire gli insediamenti che hanno una posizione strategica per la sicurezza nazionale, che sono poi i più popolosi».
Insomma, la soluzione dei due Stati non appare vicina...
«Direi che è morta e sepolta. I palestinesi sono divisi fra Gaza nelle mani di Hamas e la West Bank gestita da un debole Abu Mazen e sono in disaccordo sulla scelta di negoziare perché Hamas persegue ancora l'opzione militare, mentre in Israele Netanyahu non ha mai fatto mistero di non considerare una priorità la nascita dello Stato di Palestina. Soprattutto dopo le conseguenze molto negative del ritiro da Gaza».
Vi sono opzioni alternative per sancire una convivenza stabile fra israeliani e palestinesi?
«Di certo c'è solo che la soluzione dei due Stati non si regge in piedi. In assenza di ricette alternative, l'unica soluzione per guardare al futuro è nell'ispirarsi al passato, ovvero nell'ipotizzare un coinvolgimento dell'Egitto nella gestione di Gaza e della Giordania per la West Bank. Magari con il sostegno di altri Stati arabi, come idee alternative è invitato a farsi avanti».
Sul fronte del negoziato Israele-Siria ci sono più spiragli?
«Nel 1998-1999 Netanyahu era pronto all'accordo di pace con Hafez Assad. Fu solo l'opposizione di Ariel Sharon a fermarlo. Dunque è lecito supporre che quel compromesso di pace con la Siria potrebbe essere ritentato adesso. C'è però l'incognita di Bashar, figlio di Hafez, che oggi guida la Siria con meno autorità e più incertezze del padre».