L'amministrazione statunitense, guidata dal democratico Barack Obama, ha stabilito in modo allarmante un ingenuo e pericoloso record sulle questioni arabo-israeliane, inducendomi a nutrire timori per degli spettacolari fallimenti della linea politica a venire. Ma va detto anche che Washington ha avviato una linea politica innovativa e positiva che merita grandi elogi.
Sorrisi diplomatici in ribasso non appena il sovrano saudita Abdullah «ha lanciato una bordata» a Barack Obama. |
Questo appello è stato accolto da parte araba in vario modo. Il lato positivo è che il principe ereditario del Bahrein, Salman bin Hamad al-Khalifa ha asserito che «è necessario che tutte le parti prendano dei provvedimenti sincroni e dettati dalla buona fede, se la pace deve avere un'opportunità» e il ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh ha impegnato il suo governo «a creare la giusta atmosfera». Al contrario, Re Abdullah dell'Arabia Saudita non ha accolto l'appello di Obama per prendere delle misure atte a costruire la fiducia verso Israele nel corso di una visita presidenziale ai primi del giugno scorso. La Rozen riporta che il sovrano saudita «ha lanciato una bordata nel corso del lungo incontro con Obama svoltosi a Riad». È andata così male che «poi i funzionari sauditi si sono scusati con il presidente americano per il comportamento del sovrano». Così pure il ministro degli esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit ha chiesto retoricamente: «La normalizzazione è possibile finché continuerà la costruzione degli insediamenti?» La risposta è no, di certo. Malgrado le reazioni negative, il coinvolgimento dei Paesi arabi che può offrire benefici a Israele dovrebbe contenere il male inflitto da "operatori di pace" diplomatici e che esercitano una filantropia ingenua e inefficiente. Quasi vent'anni fa in un articolo da me pubblicato sul Wall Street Journal nel giugno 1990, chiesi di includere i Paesi arabi nel processo di pace. Notai l'esistenza di una certa simmetria in cui «i palestinesi vogliono da Israele ciò che lo Stato ebraico vuole dai Paesi arabi: riconoscimento e legittimità. Pertanto, i palestinesi cercano concessioni da parte di Israele che, a sua volta, cerca di ottenere concessioni dai Paesi arabi». Nel pezzo asserii di accoppiare le parallele delusioni vale a dire che «Israele non riesce ad avere ciò che vuole dai Paesi arabi e i palestinesi non riescono ad ottenere ciò che vogliono dallo Stato ebraico».
Proposi dunque che il governo americano avrebbe dovuto «collegare le concessioni a Israele da parte dei Paesi arabi con le concessioni israeliane ai palestinesi». Ossia, quando i Paesi arabi danno a Israele qualcosa che esso vuole, allora – e solo allora – ci si dovrebbe aspettare che gli israeliani diano qualcosa in cambio ai palestinesi. Questo approccio bilanciato, come da me asserito, «pone il peso dell'iniziativa direttamente a carico dei Paesi arabi – dove dovrebbe essere». Dopo il lungo, sterile e controproducente giro di negoziati esclusivamente israelo-palestinesi, fa piacere assistere finalmente a un tentativo di portare i Paesi arabi nei negoziati. Continuo ad asserire che i palestinesi devono essere sconfitti prima che i colloqui di pace possano svolgersi in modo proficuo, ma il coinvolgimento dei Paesi arabi migliora gli equilibri e riduce il rischio di danni.