La scorsa settimana le forze americane hanno lasciato le città irachene in mano a cortei, caroselli di macchine, fuochi d'artificio e slogan del tipo: "Via! Via l'America" e "l'America se ne va! Baghdad è vittoriosa!" Gli Stati Uniti se ne sono andati grazie all'Accordo sullo status delle forze americane (Sofa, Status of Forces Agreement) raggiunto nel novembre 2008 e che stabiliva il loro «ritiro da città, cittadine e villaggi» entro il 30 giugno 2009. Inoltre, entro il 31 dicembre 2011, «le forze Usa devono ritirarsi da tutto il territorio iracheno, dalle acque e dallo spazio aereo». Il Sofa garantisce altresì a Baghdad, lo ricordo, il controllo sulle operazioni militari americane e definisce il ruolo statunitense in alcuni settori come l'economia e l'istruzione irachene. Alcune fortificazioni urbane in mano alle truppe Usa sono state consegnate agli iracheni, altre sono state distrutte.
L'1 luglio gli iracheni hanno festeggiato il ritiro delle truppe americane dalle città dell'Iraq. |
In parole povere, questi cambiamenti stanno a significare che gli iracheni, malgrado oltre sei anni di occupazione Usa e la necessità di un sostanziale appoggio americano di cui non possono ancora fare a meno, sono riusciti più o meno ad occuparsi del loro paese. A mio avviso, la mossa americana di abbandonare le aree urbane arriva troppo tardi a sei anni di distanza. Già in un articolo del 2003, "Che siano gli iracheni a occuparsi dell'Iraq", esortai a dare il potere agli iracheni e a lasciare che formassero un governo. «Occorre che le forze di coalizione la smettano di pattugliare le strade urbane e di proteggere gli edifici, e facciano ritorno alle loro basi nel deserto». Il lungo indugio di Washington è costato all'America un pesante tributo, a partire dalle migliaia di vittime e dalle centinaia di miliardi di dollari per poi arrivare fino ad avvelenare la politica statunitense. Vincolare gli interessi americani a quelli degli iracheni che vivono nelle città ha distrutto la solidarietà del "restiamo uniti" che seguì l'11 settembre, rimpiazzandola con il dibattito più teso e feroce che il Paese ha mai conosciuto dai tempi della guerra del Vietnam.
La cosa peggiore è che l'occupazione delle città irachene ha un impatto a lungo termine ancora imprevedibile ma di certo spaventoso. Più di ogni altro fattore, assumersi la responsabilità delle città irachene ha screditato George W. Bush e alimentato un'inarrestabile ondata di consensi a favore del nuovo inquilino della Casa Bianca. I primi sei mesi dell'amministrazione di Barack Obama mostrano che quest'ultimo aspira ad apportare dei cambiamenti fondamentali nei rapporti di Stato e società; in questo senso, per parecchi decenni gli americani probabilmente pagheranno per gli errori commessi in Iraq.
E che dire dell'impatto dell'occupazione sugli iracheni? Come osserva Ernesto Londoño del Washington Post, sono due gli interrogativi che hanno ossessionato le truppe Usa durante la fase di preparazione del ritiro del 30 giugno: Come si comporteranno le forze irachene una volta attuato il ritiro? Il tributo di vite umane e finanziario volto a sostenere e legittimare il governo iracheno dimostra di essere stato un ottimo investimento? Io sono pessimista, se si considera che l'Iraq è un paese storicamente violento che sta ancora emergendo dall'incubo stalinista di Saddam Hussein, che è un luogo pregno di corruzione, di tensioni, di odio e di sete di vendetta. Avere le truppe americane attorno per sei anni ha temporaneamente contenuto le pressioni, ma ha migliorato a malapena il destino del paese.
Parecchi iracheni sono d'accordo. «Quando gli americani se ne andranno, ogni cosa verrà saccheggiata perché nessuno se ne starà a guardare», dice un tenente dell'esercito iracheno. «Ci sarà una guerra civile, senza ombra di dubbio», prevede un interprete. Nessuno presta attenzione ai messaggi di speranza e riconciliazione trasmessi in Iraq con i soldi dei contribuenti americani. «In questo momento l'Iraq è come un bambino. Ha bisogno di persone che se ne prendano cura», chiosa il presidente di un consiglio di sicurezza locale. Un legislatore sciita, Qassim Daoud, chiede apertamente alle truppe americane di rimanere fino al 2020 o al 2025.
Ma le truppe se ne stanno inesorabilmente andando ed io prevedo che il massiccio sforzo americano si vanificherà rapidamente, fallirà e verrà dimenticato. Gli iracheni affronteranno in modo mediocre problemi come il terrorismo, le tensioni tra sunniti e sciiti, l'autonomia curda, le ambizioni islamiste, la scomparsa dei cristiani, si occuperanno della fragile Diga di Mosul e della questione delle obsolete infrastrutture petrolifere e di trasporto del gas. La guerra civile continua ad essere una potenziale prospettiva come risultato di una lotta settaria. Ma vi sono segni evidenti che gli iracheni non sono in grado persino di mantenere le loro attrezzature militari avute in dono dagli Stati Uniti e che valgono miliardi di dollari. Da americano, auguro buona fortuna all'Iraq, ma quale liberazione dal controllo Usa delle sue città! Addio alla vigilanza sull'economia e sulle scuole, addio alle preoccupazioni per i rapporti intertribali e per la Diga di Mosul, e addio alla responsabilità dei terroristi e delle loro vittime. Ironia della sorte, se l'occupazione delle città irachene ha causato un danno grave e duraturo agli Stati Uniti, il suo impatto benefico sull'Iraq probabilmente sarà superficiale e transitorio. In conclusione, un doloroso spreco di risorse non si esaurisce affatto anzitempo.