«La vittoria nella Coppa d'Asia si presenta come un'opportunità per creare un'identità nazionale condivisa in Iraq ma non facciamoci facili illusioni, la priorità resta quella di ripristinare la sicurezza sul territorio». Così Daniel Pipes, direttore del Middle East Forum, commenta il risultato del match giocato a Jakarta, esprimendo speranzamaanche molta prudenza.
Il successo sul campo ottenuto dall'Iraq sull'Arabia Saudita potrà avere un impatto politico sulla situazione a Baghdad?
«Lo speriamo. Si tratta di una opportunità importante per costruire un'identità nazionale irachena. La squadra è composta da giocatori sunniti, sciiti, curdi: è un modello di convivenza».
Dove è la novità?
«È duplice. Da un lato è la prima volta dal rovesciamento della dittatura di Saddam nel 2003 che sunniti, sciiti e curdi festeggiano assieme ovunque nel Paese, cantando e ballando all'unisono, e questo crea potenzialmente una situazione nuova, diversa dalle violenze quotidiane che vedono le etnie su fronti opposti. Ma c'è anche un secondo motivo: l'Iraq finora è esistito come nazione unita solo grazie alla spietata ferocia di Saddam Hussein e dei suoi aguzzini. Qualsiasi altra forma per realizzarla è certamente benvenuta».
L'ambasciatore americano all'Onu, Zalmay Khalizad, ha detto di augurarsi che i politici iracheni prendano esempio dai giocatori della nazionale e pongano fine alle continue liti etniche in Parlamento. Cosa ne pensa?
«Speriamo davvero che lo ascoltino ma preferisco essere molto prudente sugli scenari politici a Baghdad così come, per principio, sull'impatto di un match sportivo sulla situazione interna di un singolo Paese, Iraq incluso. Più delle partite vinte o perse ciò che conta è il ripristino della sicurezza in Iraq. Se ciò non avverrà si tornerà a sparare o morire proprio lì dove oggi si festeggia».
Perché è scettico sull'impatto politico di un match sportivo?
«Guardiamo al precedente della Francia. Quando vinse la coppa del mondo di calcio tutti indicarono nel team guidato dall'attaccante Zidane un modello di integrazione di successo fra le diverse etnie della società nazionale, fra bianchi, berberi, arabi e neri. Ma poi abbiamo avuto i moti di rivolta violenta nelle periferie urbane proprio da parte degli immigrati che più si riconoscono nell'esempio di Zidane».
Quali sono i perduranti ostacoli alla creazione di una identità nazionale condivisa in Iraq?
«La presenza di etnie che si riconoscono in interessi di gruppo, con fedeltà locali e religiose che mettono in secondo piano il rispetto per il governo e le istituzioni nazionali. Se da tempo si parla a Washington dello scenario di una frammentazione dell'Iraq in tre Stati differenti è perché sunniti, sciiti e curdi non sembrano affatto interessati a convivere, condividendo valori e istituzioni. Preferiscono vivere ognuno per conto loro».
È questo il motivo per il quale ancora non è stata approvata la nuova legge sulla suddivisione dei proventi petroliferi?
«Prima avremo la nuova legge meglio sarà, a patto ovviamente che si tratti di un testo condiviso, che suggella concordia e non moltiplicare frizioni. Il fatto che finora non sia stato possibile accordarsi sulla nuova legge conferma la profondità dei disaccordi esistenti».