Lo spargimento di sangue delle ultime settimane mette palestinesi, israeliani e occidentali di fronte a una grossa scelta.
I palestinesi possono decidere di porre fine alla campagna di violenza contro Israele oppure andare avanti per mesi o perfino per anni. I precedenti storici mostrano come essi potrebbero seguire questa strada. Nell'agosto del 1929 e nel settembre 1996, ad esempio, il ciclo di violenza durò qualche giorno. Ma dal 1930 al 1939 (la "Rivolta araba") e dal 1987 al 1991 (gli anni della "intifada") essi ricorsero all'suo della forza per diversi anni, mostrando una certa disponibilità a sacrificare le loro vite e il benessere economico.
Stavolta durerà giorni o anni? I palestinesi e i loro fiancheggiatori arabi e musulmani puntano a una lunga campagna di violenza per innumerevoli motivi, primo tra tutti quello secondo cui i palestinesi non considerano più Israele il paese eroico di un tempo. Piuttosto, esso viene considerato come uno Stato debole e avvilito, che si lascia facilmente intimidire da episodi di violenza su scala ridotta.
Si osservi come il tanto decantato esercito israeliano si ritirò dal Libano nel maggio scorso, sconfitto da un disorganizzato gruppo di terroristi Hezbollah. Solo una settimana fa, i soldati israeliani hanno abbandonato la Tomba di Giuseppe, un luogo santo ebraico, costretti a farlo da una folla inferocita. Né ha destato sconcerto il lancio di bombe effettuato dall'aviazione israeliana su alcuni edifici vuoti – proprio per non causare vittime – in reazione al linciaggio di due soldati israeliani, perpetrato la scorsa settimana.
Con gli israeliani che apparentemente battono in ritirata i palestinesi adottano degli slogan aggressivi ("Giù i ramoscelli di ulivo, lunga vita ai fucili!") e che inneggiano alla violenza jihadista ("Uccidiamo gli ebrei") il che rivela l'intento di proseguire con la perpetrazione di atti di violenza per un lungo periodo di tempo.
Gli israeliani si trovano altresì di fronte alla decisione se riprendere o meno i negoziati con i palestinesi sulla base dei presupposti di Oslo. Tradotto dal diplomatese ciò significa: gli israeliani continuano a pensare che Yasser Arafat e i palestinesi, una volta che avranno uno Stato, vivranno in pace con Israele? Oppure essi terranno conto del comportamento palestinese degli ultimi sette anni e trarranno la conclusione che il desiderio palestinese di distruggere Israele continua ad essere costante? O per dirla in un altro modo, l'obiettivo finale palestinese consiste nella creazione di uno Stato palestinese o nella distruzione di Israele?
Nella scia dei recenti episodi di violenza, gli israeliani sono giunti alla conclusione, in modo pressoché unanime, che i palestinesi non accetteranno mai l'esistenza di uno Stato ebraico in Medio Oriente.
Stranamente, però, questo consenso non si traduce nella logica decisione politica che sarebbe meglio lasciar perdere la diplomazia di Oslo. Un sondaggio pubblicato venerdì mostra che il 63% degli israeliani è a favore del proseguo dei negoziati con i palestinesi. Essendo venuto a conoscenza di questi risultati, il premier Ehud Barak si dice fiducioso di poter riavviare la strada della diplomazia, e a tal fine egli chiede ai leader mondiali di incalzare Arafat nella speranza di convincerlo a raggiungere una "pace del coraggioso".
In altre parole, gli israeliani sono così stanchi di combattere che perfino l'attuale spasmo di violenza non li dissuade dal tentativo di raggiungere un accordo. Anche se i negoziati avviati nel 1993 non hanno ottenuto i risultati desiderati, l'orrore che il paese nutre per la guerra lo porta a perseguire a oltranza questo obiettivo. Sassaiole, linciaggi e altre brutalità non sembrano scalfire la conclusione a cui sono giunti gli israeliani, vale a dire che "non esiste alcuna alternativa" a Oslo.
E per finire, americani, europei e il mondo intero si trovano di fronte a una scelta: continuare a incalzare Israele a fare concessioni agli arabi oppure adottare un approccio del tutto differente.
Persuadere lo Stato ebraico a ritirarsi dai territori occupati nel corso della sua guerra difensiva è una storia vecchia quanto lo stesso Israele. Le concessioni israeliane offriranno parecchi benefici a breve termine al mondo esterno, poiché essi costipano il conflitto arabo-israeliano, attenuano la rabbia araba e musulmana verso l'Occidente e facilitano parecchie relazioni di governo.
Ma questo schema fatto di concessioni da parte israeliana non può andare avanti all'infinito. A un certo punto, Israele non avrà più terre da concedere. Comprare i palestinesi è una politica transitoria, che non va perseguita a tempo indeterminato.
Inoltre, Israele riceve molto poco in cambio della sua disponibilità a cedere terre e a concedere benefici. E piuttosto che procurare a Israele la riconoscenza da parte dei nemici, tutto questo induce questi ultimi a disprezzare lo Stato ebraico e a considerarlo debole. La magnanimità non porta all'amicizia ma a un pericoloso stato d'animo intriso di euforia e di ambizione.
Episodi come il ritiro dal Libano inducono gli arabi a considerare Israele vulnerabile. L'odore di sangue è nell'aria: dal Marocco all'Iran, e anche in altri paesi, masse di gente sono scese in piazza, inneggiando alla distruzione della "entità sionista". La sconfitta araba del 1967 aveva apparentemente spedito questa aspirazione nella pattumiera della storia; ma lo sconforto israeliano ha ravvivato la consapevolezza che per eliminare lo Stato ebraico è necessario un maggiore sforzo.
Questa euforia ha delle minacciose implicazioni. Essa mette in discussione i trattati di pace stipulati da Egitto e Giordania con Israele. Agita il mercato petrolifero e quello azionario. E peggio ancora, essa accresce le probabilità che si scateni un conflitto bellico arabo-israeliano su vasta scala. Alcuni israeliani sono coscienti di ciò; un vecchio collaboratore di Yitzhak Rabin spiega che "specie nei media, l'immagine di un Israele debole conduce sempre alla guerra".
Niente può essere considerato più pregiudizievole per gli interessi occidentali di una simile guerra. La combinazione di demoralizzazione israeliana e trionfalismo arabo sta a indicare che è arrivato il momento per gli Stati Uniti e per altri paesi occidentali di smettere di incalzare Israele a fare concessioni e di incoraggiarlo piuttosto ad adottare una linea dura e a far capire ai suoi nemici che incorreranno in terribili conseguenze se continuano a ricorrere all'uso di violenza contro lo Stato ebraico.
Per fare ciò occorre che l'Occidente adotti una politica del tutto opposta a quella che attualmente persegue: piuttosto che spingere Israele a soddisfare i desideri degli arabi, bisogna spronarlo a mostrarsi risoluto a difendere i suoi interessi di sicurezza e a dimostrare che fa sul serio.
Per quanto possa sembrare inverosimile, questa politica è adesso necessaria se il mondo intero desidera prendere dei provvedimenti volti a evitare che l'attuale conflitto mediorientale a bassa intensità si trasformi in una guerra su vasta scala.