Per quale motivo è iniziata adesso la campagna di violenza contro Israele?
La spiegazione israeliana, sposata dal premier Ehud Barak e dagli altri dirigenti colpevolizza Yasser Arafat; lui l'ha innescata e lui porrà fine ad essa. Per quale motivo Arafat ha dato il via adesso alla violenza? Shlomo Ben-Ami, ministro degli Esteri facente funzioni, sostiene che egli voleva distrarre l'attenzione dalle "proposte provvisorie" americane volte a sbloccare l'impasse nelle negoziazioni con Israele.
Ma ciò non è riuscito a giustificare tutta la violenza che Arafat non poteva controllare.
Hezbollah, l'organizzazione islamista libanese, ha catturato tre soldati israeliani e bombardato le postazioni israeliane. Gli arabi israeliani hanno fatto ricorso a una violenza senza precedenti. Centinaia di migliaia di egiziani e di marocchini sono scesi in strada scandendo slogan anti-Israele. Saddam Hussein ha promesso di "porre fine al sionismo".
In altre parole, focalizzando l'attenzione sul ruolo dell'Autorità palestinese, non si coglie la questione più ingente: vale a dire che la spirale di violenza delle ultime due settimane è frutto di un crescente malumore delle "strade" palestinesi e arabe. Questo malumore ha delle radici profonde.
Quando nel 1948 venne dichiarata la nascita dello Stato d'Israele, gli arabi erano convinti di poter distruggere rapidamente il nascente Stato ebraico. Questa fiducia venne minata da una serie di disfatte belliche subite dagli arabi: le peggiori furono quelle del 1948-49 e del 1967, come altresì le sconfitte del 1956 e del 1973, e malgrado esse vennero dipinte come delle vittorie politiche, furono ampiamente riconosciute come dei disastri militari.
Il momento peggiore per gli arabi arrivò nel 1991 con la disfatta dell'Iraq e la dissoluzione dell'Unione Sovietica. La vittoria su Israele sembrava davvero essere molto remota.
Poi, nel suo momento di maggiore forza, piuttosto che distruggere l'OLP, nel 1993 Israele tese ad essa in modo magnanimo una mano in segno di amicizia. In ciò che divenne famoso come il processo di Oslo, il governo riconobbe Arafat come "un partner di pace". Lo Stato ebraico fece questo passo pensando che i palestinesi e i loro fiancheggiatori avessero tratto i dovuti insegnamenti dai 45 anni in cui non riuscirono a distruggere Israele e pensando che, avendo riflettuto su quanto accaduto, i palestinesi avrebbero adesso riconosciuto l'esistenza di uno Stato ebraico sovrano in Medio Oriente.
Ma come mostra ogni sondaggio (oltre a molte altre prove) la maggior parte dei palestinesi, come altresì i loro alleati arabi e musulmani, non desistono dalla speranza di distruggere Israele. Invece, essi hanno messo da parte questa ambizione, per scongelarla in futuro al momento opportuno.
Questo disgelo arrivò a sorpresa rapidamente. Mossi da un senso di potere, i leader israeliani, tanto laburisti quanto likudisti, incoraggiarono una benevola disposizione da parte dei palestinesi, con concessioni territoriali ad essi, garantendo loro autonomia politica, aiutandoli nello sviluppo economico e facendo delle generose concessioni su questioni controverse (come il controllo dei luoghi santi). I leader israeliani non presero altresì i palestinesi alla lettera e nemmeno l'animus degli accordi firmati.
Questa magnanimità israeliana non ispirò mutui sentimenti di propositi costruttivi ma un turbolento sentimento, misto a una volontà da parte dei palestinesi di ricorrere all'uso della forza. Ciò che ebbe inizio con ammiccamenti e titubanti asserzioni presto si trasformò in aperta provocazione ed odio esplicito. Tre mesi fa, al summit di Camp David II i palestinesi era così infervorati che le "piazze" convinsero Arafat a rifiutare perfino le concessioni sorprendentemente generose di Barak. Esse sembrarono loro troppo esigue e troppo tardive.
Così rifiutando, i palestinesi fecero capire di non avere più bisogno di barattare con il nemico sionista; d'ora in poi essi avrebbero adottato come modello il metodo utilizzato da Hezbollah per ottenere la vittoria, ricorrendo all'uso della forza. Ma la leadership israeliana, che proiettava in modo miope sui palestinesi le sue stesse speranze di trovare una risoluzione armoniosa, ignorava che in realtà essi si stavano preparando a una violenta offensiva.
A fine settembre, in un clima di euforia e perfino di millenaria aspettativa, finirono per innescare un nuovo ciclo di violenza.
Più di ogni altro episodio, la dissacrazione della Tomba di Giuseppe, un luogo santo ebraico, incarnò il simbolo del loro spirito trionfalista. Il più moderato dei palestinesi chiese di liberare il Monte del Tempio o Gerusalemme, il più ambizioso considerò le proprie azioni come un primo passo verso la distruzione dello stesso Israele.
Storicamente, lo stato d'animo palestinese ed arabo ostile nei confronti di Israele è oggi più risoluto ed ottimista di quanto lo fosse prima della Guerra dei Sei giorni del 1967 – o possibilmente sin dal 1948.
I nemici dello Stato ebraico pensano ancora di eliminare "l'entità sionista". Se si presta ascolto con attenzione, difficilmente li si sentirà pronunciare parole che manifestano una certa prudenza o di scetticismo; essi concordano sul fatto che il loro momento è arrivato.
Non sarà facile per Israele ristabilire la buona disposizione degli anni 1991-1993. Ciò richiederà dei grossi sforzi e probabilmente dei veri e propri sacrifici. Ma mettendoci la volontà sufficiente, ciò potrà avvenire.