La settimana prossima i coloni israeliani incominceranno ad essere evacuati, volenti o nolenti, dalla striscia di Gaza. Per i Palestinesi è un passo avanti verso l'indipendenza. Ma l'indipendenza sarà una vittoria per i Palestinesi? Al Fatah la considera come una grande vittoria. Hamas e la Jihad Islamica come un passo avanti verso il loro obiettivo: la distruzione dello Stato di Israele. Ma i cittadini palestinesi medi sarebbero contenti della loro indipendenza nazionale?
Non è stato condotto alcun sondaggio di opinione, ma a giudicare da parecchi casi di trasferimento in territorio israeliano della popolazione araba locale, sembrerebbe proprio di no. Il giornalista Daniel Pipes, uno dei maggiori esperti del Medio Oriente, aveva raccolto una serie di casi e testimonianze in controtendenza rispetto all'opinione più diffusa in Europa, quella secondo cui i Palestinesi non vedono l'ora di liberarsi dall'occupazione israeliana. "L'inferno di Israele è migliore del paradiso di Arafat", aveva detto, in modo molto colorito, uno dei cittadini palestinesi intervistati. E la sua non è un'opinione isolata, se è vero che secondo Fadal Tahabub, membro del Consiglio Nazionale Palestinese, circa il 70% dei 200.000 Arabi che vivono a Gerusalemme Est preferisce rimanere sotto la sovranità israeliana. Ogni volta che un territorio passa dalla giurisdizione israeliana a quella palestinese, si registra sempre lo stesso fenomeno: l'aumento delle richieste di residenza in Israele da parte dei Palestinesi di quell'area. Era successo nel 2000, quando sembrava inevitabile la cessione di Gerusalemme Est all'Autorità Nazionale Palestinese. In quell'occasione, un medico arabo aveva spiegato la sua decisione di ottenere documenti di identità israeliani con una chiarezza quasi sconcertante: "Il mondo intero sembra discutere del futuro degli Arabi di Gerusalemme, ma nessuno si preoccupa di interpellarci. La comunità internazionale e la sinistra israeliana sembrano dare per scontato che noi desideriamo vivere sotto il controllo di Arafat. Ma non è così. La maggior parte di noi disprezza Arafat e i suoi complici e desidera rimanere in Israele. Almeno lì io posso esprimere liberamente le mie idee senza essere sbattuto in prigione, come pure avere la possibilità di percepire un'onesta paga giornaliera".
E un consigliere arabo di Bayt Hanina, a Nord di Gerusalemme, in quello stesso frangente spiegava che la popolazione araba era nel panico, dato che il 50% di essa viveva soprattutto grazie ai sussidi dell'Istituto Assicurativo Nazionale israeliano. La stessa levata di scudi di fronte ad una prospettiva di annessione all'Autorità Nazionale Palestinese si era avuta nel febbraio del 2004, quando Sharon aveva proposto di cedere il Triangolo della Galilea. "Sharon sembra volerci lasciare nelle braccia di uno Stato sconosciuto che non ha un parlamento, né una democrazia e nemmeno università decenti" – spiegava un ventinovenne del posto – "Abbiamo stretti legami di parentela con la Cisgiordania, ma preferiamo rivendicare i nostri diritti in seno a Israele". Anche in tempi più recenti, quando l'Autorità Palestinese ha avviato un processo di parziale democratizzazione, le reazioni sono state analoghe. Molti Palestinesi, infatti, si tennero alla larga dalle urne: avevano paura di compromettere il loro status di residenti israeliani. "Non posso recarmi alle urne, mi spiace" – aveva spiegato un autista di 28 anni – "non voglio cacciarmi nei guai. Non voglio correre rischi". Saranno contenti, ora, i Palestinesi che vivono nella striscia di Gaza? Uno psichiatra, direttore del Comunity Mental Health Program di Gaza, ha confessato che: "Nel corso dell'occupazione israeliana ero cento volte più libero".