Nel corso delle elezioni dell'Autorità palestinese (AP), svoltesi nel gennaio 2005, una significativa percentuale di arabi che vivono a Gerusalemme stettero alla larga dalle urne, preoccupati come erano che il voto potesse compromettere il loro status di residenti israeliani. L'Associated Press, ad esempio, riportò quanto detto da un certo Rabi Mimi, un autotrasportatore di 28 anni, che esprimeva un forte sostegno a favore di Mahmoud Abbas, ma che non aveva alcuna intenzione di andare a votare: "Non posso recarmi alle urne. Mi spiace, ma non mi caccerò nei guai. Non voglio correre rischi". Alla domanda se egli avesse espresso la propria preferenza politica, un taxista rispose in modo indignato: "State scherzando? Per eleggere un'Autorità [palestinese] corrotta. Questo è solo ciò che ci manca".
Questa riluttanza – come pure l'incompetenza amministrativa – aiuta a spiegare il motivo per il quale, come asserisce il Jerusalem Post, "in vari seggi elettorali della città [Gerusalemme] c'erano più osservatori stranieri, giornalisti e forze di polizia che elettori". Ciò spiega altresì il perché, nelle precedenti elezioni dell'Autorità palestinese del 1996, si recò alle urne un mero 10% degli israeliani aventi diritto al voto, una percentuale assai inferiore rispetto a quelle rilevate altrove.
Di primo acchito sorprende che il timore di compromettere la residenza israeliana risulta essere assai diffuso tra i palestinesi che vivono in Israele. Dovendo scegliere se vivere sotto il governo sionista o palestinese, loro preferiscono di gran lunga il primo. E per di più, c'è una gran quantità di sentimenti filoisraeliani da cui attingere. Nessun sondaggio d'opinione si occupa di questo delicato argomento, ma un sostanziale trascorso di azioni e di dichiarazioni sta a indicare che, malgrado la loro millanteria antisionista, i più acerrimi nemici di Israele sono in grado di scorgere i suoi meriti politici. Persino i leader palestinesi, tra violente invettive, talvolta abbassano la guardia e riconoscono le virtù di Israele. Questa tendenza occulta di affezione palestinese verso Sion presenta delle implicazioni promettenti e potenzialmente significative.
Le espressioni filoisraeliane rientrano in due principali categorie: manifestare la preferenza a rimanere sotto il governo di Israele ed elogiare lo Stato ebraico definendolo migliore dei regimi arabi.
L'Autorità palestinese: No, grazie!
I palestinesi che già vivono in Israele, specie a Gerusalemme, e quelli dell'area del "Triangolo della Galilea" talvolta affermano con disinvoltura che preferiscono rimanere in Israele.
Gerusalemme. A metà del 2000, quando sembrava che alcuni settori di Gerusalemme, a maggioranza araba, sarebbero passati sotto il controllo dell'Autorità palestinese, gli abitanti musulmani di Gerusalemme si mostrarono poco entusiasti all'idea. Nel guardare attentamente all'Autorità palestinese di Arafat, costoro si accorsero della presenza di un potere monopolizzato da autocrati prepotenti e corrotti, di una forza di polizia di stampo criminale e di un'economia stagnante. Le assurde rivendicazioni sproporzionate di Arafat ("Noi rappresentiamo l'unica vera oasi democratica della regione araba") non fecero altro che esacerbare le loro apprensioni.
‘Abd ar-Razzaq ‘Abid che abita nei pressi di Silwan, un sobborgo di Gerusalemme, guardava con dubbio a "ciò che stava accedendo a Ramallah, Hebron e nella Striscia di Gaza", informandosi se i residenti fossero in buone condizioni finanziarie. Un medico che aveva chiesto di ottenere documenti d'identità israeliani spiegava:
Il mondo intero sembra discutere del futuro degli arabi di Gerusalemme, ma nessuno si preoccupa di interpellarci. La comunità internazionale e la Sinistra israeliana sembrano dare per scontato che noi desideriamo vivere sotto il controllo di Arafat. Noi, no. La maggior parte di noi disprezza Arafat e i complici che lo circondano, e desidera rimanere in Israele. Almeno lì posso esprimere liberamente le mie idee senza essere sbattuto in prigione, come pure avere la possibilità di percepire un'onesta paga giornaliera.
Nelle pittoresche parole di un residente di Gerusalemme: "L'inferno di Israele è migliore del paradiso di Arafat. Sappiamo che gli israeliani fanno fuoco e fiamme ma talvolta ci sembra che il governo palestinese sarebbe peggiore".
Husam Watad, direttore del consiglio della comunità Bayt Hanina, a nord di Gerusalemme, si era accorto che la prospettiva di trovarsi a vivere sotto il controllo di Arafat gettava la gente "nel panico. Oltre il 50% dei residenti a Gerusalemme est vive sotto la soglia di povertà e potete immaginare come apparirebbe la situazione se i residenti non ricevessero i sussidi dell'Istituto Assicurativo Nazionale [israeliano]". Secondo Fadal Tahabub, membro del Consiglio nazionale palestinese, uno stimato 70% di 200.000 arabi residenti a Gerusalemme preferiva rimanere sotto la sovranità israeliana. Un assistente sociale di Ras al-‘Amud, una delle aree che dovrebbe finire sotto il controllo dell'Autorità palestinese, asserì: "Se venisse condotto un sondaggio segreto sono sicuro che una schiacciante maggioranza di arabi di Gerusalemme direbbe che preferisce rimanere in Israele".
In verità, proprio quando nel 2000 il governo palestinese sembrava avere ottime possibilità di successo, il ministero degli Interni israeliano annunciò un sostanziale aumento di richieste di cittadinanza da parte degli arabi della parte orientale di Gerusalemme. Roni Aloni, consigliere comunale di Gerusalemme, ricevette numerose testimonianze da parte di residenti arabi che non desideravano vivere sotto il controllo dell'Autorità palestinese. "Loro mi dicono di non essere fatti per vivere a Gaza o in Cisgiordania; di essere in possesso di carte di identità israeliane e di essere abituati a standard di vita più elevati. E che anche se il governo israeliano non sia il massimo, è sempre meglio dell'Autorità palestinese". Shalom Goldstein, esperto di questioni arabe presso il municipio di Gerusalemme, concorda a riguardo: "La gente guarda cosa sta accadendo nei settori sottoposti al controllo palestinese e si dice ‘Grazie ad Allah siamo in possesso di carte di identità israeliane'. In realtà, la maggior parte degli arabi della città preferisce vivere sotto il governo israeliano piuttosto che sotto un regime corrotto e dispotico come quello di Yasser Arafat".
Furono in molti gli arabi di Gerusalemme che nel 2000 presero in considerazione la possibilità di ottenere i documenti israeliani, al punto da indurre i funzionari islamici di grado elevato di stanza a Gerusalemme a emettere un editto che vietava allo stuolo di avere la cittadinanza israeliana (poiché ciò implicava il riconoscimento della sovranità israeliana sulla città santa). Faysal al-Husayni, l'uomo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) preposto alle questioni di Gerusalemme, si spinse oltre: "Prendere la cittadinanza israeliana è qualcosa che può essere definito solo come tradimento", egli disse, minacciando queste persone di essere escluse dallo Stato palestinese. Essendo la sua minaccia risultata vana, al-Husayni alzò la posta e annunciò che gli arabi di Gerusalemme che prendono la cittadinanza israeliana avrebbero subito la confisca delle loro abitazioni. La stazione radio dell'Autorità palestinese confermò l'intimidazione, definendo alcuni individui come "traditori" e minacciando costoro che sarebbero stati "rintracciati". Parecchi palestinesi vennero intimiditi quanto basta per temere le forze di sicurezza dell'Autorità.
Ma qualcuno alzò la voce. Hisham Gol, membro del consiglio di comunità del Monte degli Ulivi, disse chiaro e tondo: "Preferisco il controllo israeliano". Una donna benestante della Cisgiordania nel telefonare ad un'amica di Gaza per chiederle come si vivesse sotto l'Autorità palestinese si sentì rispondere con veemenza: "Posso solo dirti di pregare affinché gli israeliani non abbandonino la tua città" poiché "gli ebrei sono più umani" dei palestinesi. Un individuo disposto a opporsi pubblicamente a Arafat fu Zohair Hamdan di Sur Bahir, un villaggio a sud dell'area metropolitana di Gerusalemme; egli indisse una petizione tra gli arabi di Gerusalemme affinché venisse bandito un referendum prima che Israele lasciasse che l'Autorità palestinese prendesse il potere a Gerusalemme. "Da 33 anni facciamo parte dello Stato di Israele. Ma adesso i nostri diritti vengono dimenticati". In un anno e mezzo questo uomo raccolse oltre 12.000 firme (su un totale di 165.000 arabi che vivono a Gerusalemme). "Non accetteremo una situazione dove veniamo condotti come pecore al macello". Hamdan espresse altresì la personale preferenza che Sur Bahir continuasse a far parte di Israele, prevedendo che la maggioranza dei palestinesi avrebbe rifiutato "il governo corrotto e dispotico di Arafat. Guardate cosa ha fatto in Libano, Giordania e adesso in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Egli ha procurato un disastro dopo l'altro al suo popolo".
Il Triangolo della Galilea. Simili sentimenti filoisraeliani non furono circoscritti a Gerusalemme. Quando il governo del premier Ariel Sharon, nel febbraio 2004, rilasciò una dichiarazione circa la possibilità di conferire all'Autorità palestinese il controllo sul Triangolo della Galilea, una parte di Israele a predominanza araba, la reazione arrivò forte e dura. Come raccontò all'agenzia France Press il venticinquenne Mahmoud Mahajnah: "Yasser Arafat governa una dittatura, non una democrazia. Nessuno qui accetterebbe di vivere sotto quel regime. Io ho fatto il servizio militare [israeliano]; sono uno studente e un membro dell'Associazione israeliana di calcio. Perché mi trasferirebbero? Ciò è logico o legittimo?" Un residente riportò quanto asserito da un abitante del luogo e cioè che "‘la malvagità' di Israele è migliore del ‘paradiso' della Cisgiordania". Shu'a Sa'd, 22 anni, ne spiegò il motivo: "Qui si può dire e fare quel che si vuole – a patto che non si tocchi la sicurezza di Israele. Là, se si parla di Arafat si può essere arrestati e pestati a sangue". Un altro giovane uomo, il ventinovenne ‘Isam Abu ‘Alu, lo dice con altre parole: "Sharon sembra volerci unire a uno Stato sconosciuto che non ha un Parlamento né una democrazia e nemmeno delle università decenti. Abbiamo stretti legami parentali con la Cisgiordania, ma preferiamo rivendicare i nostri pieni diritti in seno a Israele".
All'entrata di Umm al-Fahm, la più grande città musulmana di Israele, sventolano bandiere verdi del Partito del movimento islamico che governa la città e c'è un tabellone pubblicitario che riprova il governo di Israele su Gerusalemme. Detto questo, Hashim ‘Abd ar-Rahman, sindaco e leader locale del Movimento islamico, non ha tempo per la proposta di Sharon: "Malgrado le discriminazioni e le ingiustizie che i cittadini arabi si trovano ad affrontare, la democrazia e la giustizia esistenti nello Stato di Israele sono migliori della democrazia e della giustizia vigenti nei paesi arabi e islamici". Nemmeno ad Ahmed Tibi, un parlamentare arabo-israeliano e consulente di Arafat, piace l'idea del controllo dell'Autorità palestinese, che egli definisce "una proposta pericolosa e antidemocratica".
Secondo un sondaggio del maggio 2001, solo il 30% della popolazione araba di Israele era d'accordo con l'annessione del Triangolo della Galilea al futuro Stato palestinese, il che significa che una larga maggioranza preferiva rimanere in Israele. Dal febbraio 2004, secondo l'Arab Center for Applied Social Research di Haifa, la percentuale di coloro che preferiscono rimanere in Israele è balzata al 90%. Non meno sorprendente è che il 73% degli arabi dei Triangolo sosteneva che sarebbe ricorso alla violenza per evitare modifiche al confine. Le loro ragioni si sono divise equamente in parti eguali tra coloro che sostenevano che Israele fosse la loro patria (43%) e quelli che prediligevano i più elevati standard di vita israeliani (33%). L'opposizione araba alla cessione del Triangolo della Galilea al controllo da parte dell'Autorità palestinese era così forte che Sharon abbandonò velocemente l'idea.
La questione venne in parte sollevata in seguito, nel 2004, mentre Israele era intento a costruire il suo recinto di sicurezza. Alcuni palestinesi come Ahmed Jabrin, 67 anni, di Umm al-Fahm's dovettero scegliere da quale parte vivere. Egli non ebbe dubbi: "Noi ci siamo battuti [con le autorità israeliane] per stare dentro il recinto e loro lo hanno spostato in maniera tale che noi stessimo ancora in suolo israeliano. Che dobbiamo fare con l'Autorità palestinese?" Un suo parente, Hisham Jabrin, 31 anni, aggiunse: "Noi siamo parte integrante di Israele e non faremo mai parte di uno Stato palestinese. Abbiamo sempre vissuto in Israele e per nessun motivo cambieremo".
Preferire Israele ai regimi arabi
I palestinesi – da quelli di grado più basso a quelli di rango elevato – talvolta ammettono di preferire Israele ai paesi arabi. Come osservava un dirigente dell'OLP: "Non temiamo più gli israeliani o gli americani, malgrado la loro ostilità nei nostri confronti, adesso però temiamo i nostri ‘fratelli' arabi". Oppure, come rileva a grandi linee un abitante di Gaza: "Gli arabi dicono di essere nostri amici e ci trattano peggio degli israeliani". Qui di seguito alcuni esempi di atteggiamenti tenuti verso tre Stati:
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Siria. Salah Khalaf (alias Abu Iyad), una delle più autorevoli figure dell'OLP, nel 1983 dichiarò che i crimini commessi dal regime di Hafiz al-Assad contro i palestinesi "hanno superato quelli perpetrati dal nemico israeliano". Stesso atteggiamento fu quello tenuto da Yasser Arafat ai funerali di un personaggio dell'OLP ucciso su istigazione siriana: "I sionisti hanno provato a ucciderti nei territori occupati e non essendoci riusciti ti hanno deportato. Ma i sionisti arabi, rappresentati dai governanti di Damasco, hanno pensato che ciò fosse insufficiente, così sei caduto da martire".
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Giordania. Victor, un giordano che un tempo lavorava come assistente di un importante ministro del governo saudita, nel 1994 osservò che Israele era l'unico paese del Medio Oriente per il quale egli nutriva ammirazione. "Vorrei che Israele prendesse il controllo della Giordania" egli asserì, accompagnato da cenni di approvazione da parte del fratello. "Gli israeliani sono l'unico popolo dell'area ad essere organizzati, che sanno come agire. E non sono cattivi. Sono onesti. Mantengono la parola data. Gli arabi non riescono a fare nulla di giusto. Si guardi alla cosiddetta democrazia esistente in Giordania. È un'assoluta burla".
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Kuwait. I palestinesi collaborarono con le forze irachene quando esse occuparono il Kuwait nel 1990 così, quando il paese venne liberato, essi ricevettero un duro trattamento. Un quotidiano palestinese rilevò che in Kuwait: "I palestinesi ricevono un trattamento perfino peggiore di quello riservato loro dai nemici, gli israeliani". Sopravvissuto all'esperienza del Kuwait, un altro palestinese non ha usato mezzi termini nell'asserire: "Adesso penso che Israele sia il paradiso. Oggi, amo gli israeliani. So che ci trattano da esseri umani. La Cisgiordania [allora ancora sotto il controllo di Israele] è meglio [del Kuwait]. Almeno, prima che gli israeliani ti arrestino, esibiscono un mandato". Con meno esuberanza, Arafat stesso concordava: "Ciò che il Kuwait ha fatto al popolo palestinese è peggiore di quanto fatto da Israele nei territori occupati".
Decenni fa parecchi palestinesi conoscevano già i pregi della vita politica israeliana. Come spiegò un uomo di Ramallah: "Non dimenticherò mai quel giorno, durante la guerra del Libano [del 1982] in cui un parlamentare arabo della Knesset si alzò in piedi e chiamò assassino [il primo ministro Menachem] Begin. Questi non replicò affatto. Se lo avesse detto ad Arafat, non credo che quella sera quell'uomo avrebbe fatto ritorno a casa". Prima della nascita dell'Autorità palestinese, avvenuta nel 1994, la maggior parte dei palestinesi faceva sogni di autonomia senza tanto preoccuparsi dei dettagli. Dopo che Arafat fece ritorno a Gaza, costoro furono in grado di fare una diretta comparazione tra il suo modo di governare e quello di Israele, e lo fecero con una certa frequenza. Avevano parecchi motivi per preferire la vita in Israele.
Uso limitato della violenza. Dopo che la polizia dell'Autorità palestinese fece un'incursione in piena notte nell'abitazione di un sostenitore di Hamas e malmenò sia lui che il padre 70enne, l'anziano uomo urlò alla polizia: "Perfino gli ebrei non si sono comportati da vigliacchi come voi". E il figlio, una volta uscito di prigione dichiarò che l'esperienza da lui fatta nelle galere palestinesi fu peggiore di quella vissuta nelle prigioni israeliane. Un oppositore del regime di Arafat mise in evidenza come i soldati israeliani "cominciano a lanciare gas lacrimogeni per poi sparare proiettili di gomma, e solo in seguito fanno realmente fuoco. Loro non hanno mai aperto fuoco contro di noi senza aver ricevuto ordine diretto di farlo, e anche così si limitano a sparare qualche proiettile. Ma la polizia palestinese inizia a far fuoco subito e ovunque".
Libertà di espressione. ‘Adnan Khatib, proprietario e direttore di Al-Umma, un settimanale di Gerusalemme il cui poligrafico venne dato alle fiamme dalla polizia dell'Autorità palestinese nel 1995, lamentò i guai che gli fecero passare i dispotici leader dell'Autorità palestinese da quando presero le redini del potere. "Le misure prese contro i media palestinesi incluso l'arresto di giornalisti e la chiusura dei quotidiani sono ben peggiori di quelle prese dagli israeliani contro la stampa palestinese". In un paradossale corso di eventi, Na‘im Salama, un avvocato di Gaza venne arrestato dall'AP con l'accusa di diffamazione per aver scritto che i palestinesi avrebbero dovuto adottare gli standard israeliani di democrazia. In modo specifico, egli fece riferimento alle accuse di frode e abuso di fiducia mosse contro l'allora primo ministro Binyamin Netanyahu. Salama osservò come il sistema israeliano avesse permesso alla polizia di condurre indagini su di un Premier in carica e si chiese se la stessa cosa sarebbe potuta accadere al leader dell'AP. Per questa sua impudenza egli finì in galera. Hanan Ashrawi, un accanito critico di Israele, ammise (con riluttanza) che lo Stato ebraico ha qualcosa da insegnare al nascente Stato palestinese: "la libertà dovrebbe essere una di queste cose, sebbene sia stata applicata in modo selettivo, ad esempio sotto la forma di libertà di espressione".‘Iyad as-Sarraj, un eminente psichiatra, direttore del Community Mental Health Program di Gaza confessa che "nel corso dell'occupazione israeliana, ero cento volte più libero [che sotto l'Autorità palestinese]".
Democrazia. Le elezioni israeliane del maggio 1999, che Netanyahu perse, ebbero un impatto positivo su parecchi osservatori palestinesi. I columnist citati in uno studio del Middle East Media and Research Institute (MEMRI) fecero commenti in merito alla fluida transizione israeliana e si augurarono che anche a loro succedesse la stessa cosa; uno di loro asserì di invidiare gli israeliani e di desiderare "un regime del genere nel mio futuro Stato". Perfino uno degli uomini di Arafat, Hasan al-Kashif, direttore generale del ministero dell'Informazione dell'Autorità palestinese, confrontò la sconfitta immediata ed elegante di Netanyahu con il potere perpetuo esercitato da "diversi nomi della nostra leadership" che continuano a governare all'infinito. Nayif Hawatma, a capo del terroristico Fronte democratico per la liberazione della Palestina, voleva che l'AP prendesse le sue decisioni alla maniera israeliana:
Noi vogliamo il PNC [Consiglio Nazionale della Palestina] per discutere gli sviluppi a partire dal 1991, in particolar modo gli accordi di Oslo, che vennero conclusi alle spalle del PNC contrario a ciò che è accaduto in Israele dove, ad esempio, gli accordi vennero sottoposti al voto della Knesset e dell'opinione pubblica.
La sua versione dei fatti potrebbe non essere del tutto accurata ma dimostra che ha ragione.
Stato di diritto. Quando l'intifada del 1987 degenerò in lotta fratricida e divenne nota come "l'intrafada", i leader dell'OLP apprezzarono sempre più la correttezza mostrata da Israele. Haydar ‘Abd ash-Shafi', il capo della delegazione palestinese ai negoziati di pace di Washington, nel 1992 fece un'interessante osservazione in merito a una trascrizione pubblicata su un quotidiano di Beirut: "Qualcuno riesce a immaginare la felicità di una famiglia che sente bussare alla porta nel bel mezzo della notte l'esercito israeliano?" E continuò: "Quando a Gaza ebbe inizio la lotta senza quartiere, la gente fu felice poiché l'esercito israeliano impose il coprifuoco". Così pure Musa Abu Marzouk, un alto dirigente di Hamas, nel 2000 si giudicò punti ai danni di Arafat paragonando quest'ultimo in senso negativo allo Stato ebraico: "Abbiamo visto i rappresentati dell'opposizione israeliana criticare [il primo ministro israeliano Ehud] Barak e costoro non sono stati arrestati (…) Ma nel nostro caso gli arresti sanciti dall'Autorità palestinese sono all'ordine del giorno".
Tutela delle minoranze. I cristiani e i musulmani secolari apprezzano in particolar modo la protezione offerta da Israele nel momento in cui la politica palestinese tende ad essere sempre più islamista. Il settimanale francese L'Express riporta quanto detto da un palestinese cristiano in merito al fatto che quando ci sarà uno Stato palestinese "avrà fine la sacra unione contro il nemico sionista. Allora, sarà il momento della resa dei conti. Noi patiremo quanto sofferto dai nostri fratelli libanesi o dai copti d'Egitto. Mi rattrista doverlo dire, ma le leggi israeliane ci tutelano". Le sue paure sono per molti aspetti troppo tardive dal momento che la popolazione cristiano-palestinese negli ultimi decenni ha subito una forte flessione al punto che un analista si chiede se la vita cristiana "si riduce a delle chiese vuote, a una gerarchia senza congregazione e priva di fedeli nel luogo di nascita del cristianesimo?"
Benefici economici. I palestinesi che vivono in Israele (inclusa Gerusalemme) apprezzano il successo economico israeliano, i servizi sociali e gli innumerevoli benefici. Nello Stato ebraico i salari sono cinque volte più alti rispetto a quelli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, e il sistema di previdenza sociale non è paragonabile a quello palestinese. I palestinesi che vivono fuori Israele vogliono farne parte dal punto di vista economico; quando il governo israeliano annunciò il completamento di una sezione di 140 km della barriera di sicurezza per proteggere il paese dai terroristi palestinesi, un residente di Qalqiliya, una città della Cisgiordania, reagì con fare indignato: "Viviamo in una grande prigione".
Tolleranza verso gli omosessuali. In Cisgiordania e a Gaza, una condanna di sodomia prevede da 3 a 10 anni di carcere e i gay raccontano di essere torturati dalla polizia dell'Autorità palestinese. Alcuni di loro si spostano in Israele dove si stima che vivano principalmente 300 gay palestinesi. Donatella Rovera di Amnesty International così commenta: "Andare in Israele è un biglietto di sola andata, e una volta lì il loro problema più grande è probabilmente quello di essere rimandati indietro".
I palestinesi che vivono in Occidente e che si recano in visita presso l'Autorità palestinese sono chiaramente consapevoli dei lati negativi che essa mostra rispetto a Israele. "C'è una differenza tra l'occupazione israeliana e quella dell'AP", ha scritto Daoud Abu Naim, un ricercatore medico, mentre era in visita alla sua famiglia a Shuafat:
Sono disparati gli israeliani che ho incontrato nel corso degli anni. Alcuni sono rimasti indifferenti ai nostri bisogni, e altri no. D'altro canto, il regime Arafat/Rajoub è più che "corrotto". Esso è esclusivamente interessato a mettere in piedi una dittatura in cui i cittadini palestinesi non godranno affatto di nessuna libertà civile.
Rewadah Edais, uno studente di una scuola superiore che vive per la maggior parte dell'anno a San Francisco e si reca regolarmente a Gerusalemme, ha aggiunto: "Gli israeliani hanno preso la nostra terra, ma sanno governare".
Conclusioni
Da questa storia emergono diversi temi di discussione. Innanzitutto, malgrado l'infiammata retorica in merito alla "feroce" e "brutale" occupazione di Israele, i palestinesi sono consapevoli dei benefici offerti dalla sua democrazia progressista. Apprezzano le elezioni, lo Stato di diritto, la libertà di espressione e di religione, i diritti delle minoranze, la disciplina politica e gli altri benefici di un corretto sistema politico. In poche parole, tra i palestinesi esiste un elettorato favorevole alla normalità, difficile da scorgersi nella moltitudine così piena di odio che domina la copertura delle notizie. In secondo luogo, molti di coloro che hanno assaporato i benefici economici di Israele sono riluttanti a rinunciare ad essi; per quanto i palestinesi possano sembrare indifferenti agli aspetti economici, essi sanno riconoscere un buon accordo quando ne vedono uno. In terzo luogo, la percentuale dei palestinesi che preferisce vivere sotto il controllo israeliano di cui si è detto prima – una schiacciante maggioranza del 70-90% – sta a indicare che questa attitudine non è rara tra i palestinesi. Questa situazione presenta delle ovvie implicazioni sulle concessioni israeliane concernenti il "diritto al ritorno", lasciando intendere che i palestinesi si sposteranno in Israele in gran numero. In quarto luogo, ciò implica che sarà difficile raggiungere alcune delle più fantasiose soluzioni in merito allo status quo finale sulla nuova definizione dei confini; i palestinesi non sembrano più desiderosi degli israeliani di vivere sotto l'Autorità palestinese.
E allora, a parole e a fatti, perfino i palestinesi ammettono che Israele sia lo Stato più civile del Medio Oriente. Nella tetraggine dell'estremismo politico e del terrorismo odierni, ciò offre barlumi di speranza.