MILANO - Tra gli analisti del Medio Oriente più scettici verso la politica del governo americana, il direttore del Middle East Forum, Daniel Pipes è quello che ha assunto, tra tutti, la posizione del "falco". Una sincerità che all'inizio dell'anno gli è costata la nomina, presidenziale, di consigliere dell'Istituto statunitense per la Pace. Osservatore disincantato dello "scontro di civiltà", sarà a Roma il 4 marzo per partecipare a un convegno della Fondazione Liberal sulla democrazia globale, insieme a Renzo Foa, André Gluc ksmann, Robert Kagan e Michael Novak. Pipes ha risposto ad alcune domande di Libero sulle prospettive del mondo arabo.
I libanesi stanno sorprendentemente protestando contro la Siria, senza apparire intimoriti nonostante anni di occupazione da parte del regime degli Assad. Dimostrano coraggio? Potrebbero andare incontro a una reazione repressiva da parte dei siriani?
«Sì, sono senz'altro coraggiosi. Ma penso che possano esserci due sviluppi della situazione attuale. Da un lato quello proveniente dal mondo esterno, che sta esercitando pressioni sulla Siria. Dall'altro, oggi i libanesi sono molto più uniti rispetto a qualche decennio, o anche soltanto a qualche anno fa. Anche se non tutti, a dir la verità».
Cristiani e musulmani dimostrano insieme per le strade e riescono a far cadere il governo. Chi resta fuori in questa occasione?
«Tra i musulmani, mentre i sunniti fanno parte del movimento di protesta, sono gli sciiti a tenersene fuor i».
I dimostranti comunicano tramite sms e sembrano per la maggior parte giovani. Ma pensa che ci sia qualcuno dietro di loro a sostenerli?
«Sicura - mente sono le nuove generazioni a essere scese in piazza. Ma non credo che ci sia una pianificazione centrale. Penso che si tratti fondamentalmente di un movimento spontaneo, scaturito dopo l'assassinio dell'ex primo ministro Rafiq Hariri».
Non si sentiranno più forti, considerandosi appoggiati dalle recenti dichiarazioni di Stati Uniti e Francia, che dalla settimana scorsa hanno continuato a chiedere insistentemente il ritiro delle truppe siriane?
«Sì certo, una delle spinte che hanno dato vita alle proteste, oltre all'assassinio dell'ex premier, è il mondo esterno, la situazione internazionale».
Ma ritiene che i libanesi possano fidarsi di Stati Uniti e Francia, che li abbandonarono in mani siriane negli anni 1980?
«Più che fidarsi cercano un incoraggiamento. Come lei ha notato, per moltissimi anni il governo statunitense non ha obiettato seriamente all'occupazione siriana del Libano. Anzi, a un certo punto Washington ha lavorato a fianco del governo di Damasco per designare il presidente della Repubblica libanese (Émile Lahoud, n.d.r.). Il mutamento della politica degli Stati Uniti è avvenuto soltanto ora».
Comunque Hariri era stato un alleato fedele dell'Arabia Saudita. Pensa che sia prudente per i cristiani fidarsi di loro?
«Non penso che i sauditi siano una parte importante nello sviluppo della situazione libanese. È vero che c'erano stretti legami tra Beirut e Gedda, ma al presente Hariri è considerato un simbolo dell'indipendenza nazionale, non dell'influenza saudita».
Ha accennato agli sciiti, che sono il gruppo religioso maggioritario in Libano. Quale ruolo si apprestano a svolgere gli Hezbollah in questa situazione?
«Gli Hezbollah non sono certo felici di quanto sta accadendo. Vorrebbero che continuasse l'occupazione siriana e quindi per il momento si limitano a non partecipare in alcun modo al movimento antisiriano».
Pensa che il Libano sia diventato parte di quell'effetto domino che si è prodotto in tutto il Medio Oriente dopo la guerra in Iraq?
«Di certo un'influenza c'è. Il leader dei drusi Walid Jumblatt (all'opposizione nel Parlamento libanese, n.d.r.) ha affermato che di aver visto lo spirito delle elezioni irachene aleggiare anche in Libano. Perciò lo sforzo che gli Stati Uniti stanno facendo per diffondere la democrazia in tutto il mondo dal 1945 ha raggiunto anche il Medio Oriente, modificandone il quadro politico».
E chi sarà il prossimo? L'Egitto, dove Mubarak sembra voler organizzare libere elezioni presidenziali?
«Non penso che il processo sia proprio così automatico, ma che siano stati fatti dei passi in quella direzione. Peraltro le elezioni per il primo ministro o per il presidente non sono decisive quanto quelle municipali che si sono svolte in Arabia Saudita il mese scorso. Quello che è accaduto lì lo considero molto più rivoluzionar io».
Il presidente Bush ha parlato di "un fuoco di libertà" che si diffonde nella regione e oltre. Saranno possibili le riforme nel mondo arabo? Crede che le elezioni in Iraq, Arabia e Palestina porteranno la democrazia anche nel resto del Medio Oriente?
«Penso che molta strada ci separi ancora da quella meta. Ma almeno ci si è incamminati e il processo ha preso l'avvio».