NEW YORK - "Non bisogna tenere le elezioni in Iraq, perchè creeranno più problemi di quanti ne risolveranno". Colpisce sentire un giudizio del genere da Daniel Pipes, che infatti subito dopo aggiunge: "Io appoggio al cento per cento il tentativo dell'amministrazione Bush di trasformare quel Paese in una democrazia. Però non penso che il voto adesso sia lo strumento adatto a raggiungere lo scopo".
Pipes è il direttore del Middle East Forum, che vanta di avere il sito Internet dedicato alle questione mediorientali più visitato d'America. I suoi avversari lo accusano di essere un falco "islamofobo filoisraeliano", ma nell'aprile del 2003 il presidente Bush li aveva sfidati tutti, nominandolo nel consiglio direttivo dello United States Institute of Peace, un'istituzione creata dal Congresso americano per promuovere "la risoluzione pacifica dei conflitti".
Quando dice che non bisognerebbe tenere le elezioni, suggerisce un rinvio di qualche mese, come chiede la comunità sunnita? "Un rinvio, sì, ma preferibilmente di venti anni".
Parla così perchè non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie ad aprire le urne? "Sì, ma non solo. Penso soprattutto che l'Iraq non sia pronto a tenere le elezioni, e quindi credo che imporle ora complicherà la situazione. Io sono favorevole a costruire la democrazia a Baghdad, ma non so se ci vorranno ventidue mesi, o ventidue anni, per raggiungere questo obiettivo".
Perchè è così pessimista? "Perchè la cultura necessaria a sostenere una democrazia non si crea in qualche settimana. Guardate la Russia. Sono quindici anni, cioè dalla fine dell'Urss, che Mosca lavora alla costruzione di nuove istituzioni libere, eppure non ha ancora completato il suo cammino. Una democrazia richiede libertà di parola, Stato di diritto, rispetto per l'opposizione, e anche lealtà verso il governo da parte di chi perde le elezioni. Nulla di tutto questo esiste in Iraq, e non si può costruire in pochi mesi attraverso la convocazione di una consultazione".
Quando dice che le elezioni creeranno più problemi, intende la guerra civile? "Probabilmente sì".
Teme la sconfitta del premier Allawi e la vittoria dei candidati religiosi sciiti? "Non ho il polso della situazione per prevedere i risultati, ma credo che Allawi avrebbe più possibilità di restare capo del governo se noi lo tenessimo in quella posizione".
Lei cosa proporrebbe di fare, invece del voto subito? "Dovremmo cominciare a costruire la democrazia attraverso le elezioni locali, comunali, e poi legislative. Nel frattempo dovremmo individuare leader responsabili e abbastanza forti, per tenere il Paese sotto controllo ed eliminare la guerriglia".
E cosa succederebbe al presunto disimpegno americano, che secondo alcune voci dovrebbe cominciare nei mesi successivi al voto del 30 gennaio? "Noi dovremmo progressivamente ritirare i soldati nelle zone non abitate dell'Iraq, cioè quelle desertiche, in modo da non farci vedere troppo e smettere di essere bersagli. In questa maniera ci trasformeremmo nel sostegno interno alle forze locali, che poco alla volta dovrebbero prendere il controllo della situazione, ricorrendo al nostro aiuto quando fosse necessario. Gli iracheni sono adulti, in grado di badare a se stessi. Nel lungo periodo, poi, questo assetto di stabilizzazione potrebbe portare alla democrazia. Ormai, però, mi sembra tardi per seguire un piano così".