Intervistato da Ralf Ostner
Global Review: L'attacco del 7 ottobre ha rilanciato l'idea di uno Stato palestinese. Come valuta tale questione?
Daniel Pipes: Nel 2009, il governo israeliano accettò con riserva uno Stato palestinese, e fu lo stesso Benjamin Netanyahu a fare questo passo. Anche il governo statunitense accettò con riserva uno Stato palestinese, propriamente, nel 2002. Esorto gli israeliani a smettere di cercare di riprendersi ciò che hanno già concesso e invito gli americani a concentrare l'attenzione su tutte quelle numerose condizioni, nessuna delle quali è stata soddisfatta.
Global Review: Gli abitanti di Gaza stanno chiaramente soffrendo. Come giudica la situazione umanitaria?
Daniel Pipes: Hamas ha scoperto una ricetta perversa per avere successo: far soffrire gli abitanti di Gaza il più possibile per conquistare la simpatia globale. Continua a farlo anche adesso, sottraendo cibo ai gazawi, costringendoli a recarsi in luoghi esposti e fornendo statistiche fittizie replicate poi in tutto il mondo.
Global Review: Il 22 febbraio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pubblicato un piano in cui si afferma che a Gaza: "gli affari civili e l'ordine pubblico saranno gestiti da attori locali". Cosa ne pensa di questo approccio?
Daniel Pipes: Ne sono entusiasta. Ciò apre la porta ad una diretta cooperazione anti-Hamas tra Israele e gli abitanti di Gaza per istituire una nuova amministrazione nel territorio. Come ho scritto di recente, "una Gaza accettabile richiederà un rigido governo militare israeliano, che supervisioni un duro stato di polizia sulla falsariga di quelli che esistono in Egitto e Giordania. In questi Paesi, i cittadini possono condurre una vita normale purché si tengano lontani dai guai e si astengano dal criticare chi governa. In tali condizioni, Gaza potrebbe diventare dignitosa ed economicamente sostenibile".
Global Review: Ha idea di cosa potrebbe fare un Donald Trump rieletto in merito al conflitto israelo-palestinese?
Daniel Pipes: Non lo so. È rimasto per lo più in silenzio sulla guerra tra Hamas e Israele ed è noto per la sua imprevedibilità. La sua rabbia verso Netanyahu per aver riconosciuto Joe Biden come presidente probabilmente danneggerà Israele qualora Netanyahu fosse premier israeliano a gennaio 2025. Al contrario, il voler ribaltare ogni politica di Biden potrebbe indurlo a sostenere maggiormente Israele.
Trump e Netanyahu ai bei vecchi tempi. Ma guai a Israele se Trump diventasse presidente e Netanyahu fosse primo ministro. |
Global Review: Qual è la sua reazione al "piano generazionale" di David Friedman che rinuncia al controllo sovrano della Cisgiordania, cerca finanziamenti per i suoi residenti palestinesi negli Stati del Golfo Persico, conferisce loro "la massima autonomia civile" e fornisce loro documenti israeliani che consentono di votare alle elezioni locali, ma non a quelle nazionali?
Daniel Pipes: Questa è una variante della soluzione di uno Stato unico di Caroline Glick, che prevede che Israele annetta l'intera Cisgiordania, estenda la sovranità israeliana su di essa e applichi su tutto il territorio la legge civile israeliana. Ciò stabilisce la creazione di uno Stato dualistico che espone Israele a credibili accuse di apartheid. Friedman paragona la Cisgiordania allo status delle Samoa americane, di Guam, del Puerto Rico e delle Isole Vergini americane nel sistema statunitense, ma questi esempi sono fuorvianti e irrilevanti. Le conseguenze sarebbero catastrofiche per Israele. A livello nazionale, una tale opzione porterebbe alla lacerazione del corpo politico. A livello internazionale, provocherebbe una massiccia ostilità. Gli israeliani vogliono seguire la strada del Sud Africa?
Global Review: Alcuni democratici chiedono che Biden imponga un embargo sulle forniture di armi a Israele. Potrebbe il Presidente accogliere la loro richiesta?
Daniel Pipes: Biden si trova di fronte a un dilemma. Ha a cuore Israele, ma vorrebbe che fosse ancora l'Israele antecedente ai confini del 1967 governato dal Partito Laburista. Biden ha inoltre un elettorato di Sinistra che disprezza Israele e vuole danneggiarlo. Il tentativo di conciliare questi tre elementi – pro, critico, anti – porta a una politica incoerente che non piace a nessuno e suscita critiche in tutto lo spettro politico. Non vedo alcun rimedio in vista.
Global Review: Il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC) è stato annunciato nel settembre 2023 come risposta all'iniziativa cinese Belt and Road Initiative (BRI). Quali sono le sue prospettive e in che misura la guerra di Gaza ha influito su di essa?
Daniel Pipes: Le prospettive sono eccellenti perché la configurazione geografica è sensata e i Paesi coinvolti sono relativamente stabili. La guerra a Gaza ha spinto gli Houthi dello Yemen a trasformare il Mar Rosso in una zona di conflitto costringendo le navi a circumnavigare l'Africa anziché attraversare il Canale di Suez. Ciò dà un grande impulso all'IMEC.
Global Review: Si parla ora di un'alleanza tra Hamas e l'Autorità Palestinese (AP). Ciò ha una possibilità di successo?
Daniel Pipes: Se n'è parlato numerose volte, ma senza raggiungere l'obiettivo perché le due organizzazioni condividono metodi e obiettivi, ma differiscono nell'ideologia e nell'organico. Ciò spiega la tentazione e anche il fallimento, sino ad ora. L'alleanza potrebbe concretizzarsi, se l'Autorità Palestinese diventasse così debole da consentire a Hamas di organizzare una presa di potere ostile. Pertanto, sì, c'è una possibilità.
Global Review: Come interpreta il fatto che Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, non abbia informato i suoi omologhi in Turchia e Qatar sui piani per il 7 ottobre?
Daniel Pipes: Ritengo che ci siano due motivazioni: la necessità di segretezza operativa e le differenze tattiche. Su quest'ultimo punto Sinwar è più violento dei suoi omologhi stranieri, quindi probabilmente ha voluto evitare il loro veto. In ogni caso, la cattura degli ostaggi era l'obiettivo principale del 7 ottobre. Gli omicidi erano secondari. Penso che, se quella strage si replicherebbe Sinwar ridurrebbe al minimo le uccisioni e aumenterebbe il numero degli ostaggi. Meno indignazione, più potere negoziale.
Un tunnel di Hamas sotto l'ospedale Shifa a Gaza. |
Daniel Pipes: Direi proprio di sì. L'intuizione di Spencer conferma il punto principale, secondo cui Hamas è la prima autorità governativa nella storia a far soffrire deliberatamente la propria popolazione civile e posizionare i tunnel sotto le abitazioni, le scuole e gli ospedali esemplifica questa tattica. Come accennato sopra, questa malvagità di Hamas conquista la simpatia mondiale.
Global Review: Come giudica la strategia iraniana dal 7 ottobre, con Hezbollah che è quasi in guerra con Israele, gli Houthi che interrompono il commercio globale e l'Iran stesso che lancia un attacco al Pakistan?
Daniel Pipes: Gli Stati sono più pericolosi quando avvertono il loro declino e quindi agiscono in modo aggressivo per sfruttare le loro attuali capacità. Russia, Cina e Iran rientrano in questo schema. Vladimir Putin ha già colpito in Ucraina, Xi Jinping potrebbe invadere Taiwan e Khamene'i si sta muovendo in modo aggressivo. L'attacco iraniano al Pakistan è considerato l'evento geopolitico più sorprendente del XXI secolo.
Global Review: Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan sostiene attivamente Hamas e vuole chiaramente avere un ruolo maggiore nella politica palestinese. Cosa ne pensa dei suoi sforzi?
Daniel Pipes: Il ruolo di Erdoğan è rilevante, aiuta Hamas in molti modi: ospitandone il personale, finanziandone le azioni, inviando materiale (ricordiamo la Mavi Marmara) e presumibilmente aiutandola con l'intelligence. Le dimensioni economiche, la posizione e l'appartenenza alla NATO della Turchia ne fanno un importante alleato per Hamas. Finora Erdoğan non ha pagato un prezzo significativo per questo comportamento malevolo.
Global Review: Perché il Sudafrica e il Nicaragua stanno intentando azioni legali contro Israele e non contro i governi dei Paesi a maggioranza musulmana?
Daniel Pipes: Presumo che Teheran li abbia messi all'opera perché l'azione giudiziaria contro Israele ha più peso quando a prendere l'iniziativa sono Paesi lontani e con una piccola popolazione musulmana.