Quando Yasser Arafat strinse la mano al primo ministro israeliano Yitzhaq Rabin, nel settembre 1993, egli fece due grosse promesse: dire nelle sue dichiarazioni pubbliche che l'OLP "incoraggia e invita" i palestinesi "a ricusare la violenza e il terrorismo"; e "riuscire a convivere" con Israele, il che implica un'accettazione dello Stato ebraico come un dato di fatto.
Gli israeliani hanno contestato a gran voce il fatto che egli abbia tenuto fede a quelle due promesse. Da un lato dello spettro politico, c'è il ministro degli Esteri Shimon Peres a dichiarare che Arafat è "il solo ed unico leader palestinese con cui Israele può e deve negoziare". E dall'altro lato, c'è una dichiarazione del Likud che definisce Arafat come un "prosecutore del nazismo". Chi ha ragione? Arafat ha veramente onorato i suoi impegni oppure no?
Non è facile dare una risposta a ciò, giacché Arafat è una contraddizione. Quando accettò il Premio Nobel, a Oslo, egli sembrava veramente perorare la pace e la stabilità:
Come i loro fratelli arabi, i palestinesi, la cui causa è custode della via della pace arabo-isrealiana, non vedono l'ora di stabilire una pace definitiva, giusta e durevole fondata sul principio di terra in cambio di pace e conformemente alla legittimità internazionale e in base alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Per noi, la pace è un valore e un interesse. La pace è un valore umano assoluto che aiuterà l'uomo a sviluppare se stesso in libertà, senza subire restrizioni dettate dalla regione, dalla religione o dalla nazione.
Ma alcuni mesi dopo, a Gaza, egli incitò alla jihad (la guerra santa) contro Israele:
Noi continueremo a fare la jihad, una lunga jihad, difficile e snervante, faremo martiri e battaglie. Ma questa è la strada della vittoria, la via della gloria, la via della jihad, non solo per il popolo palestinese, ma per l'intera nazione araba.
Tentando di andare oltre la prova contraddittoria fornita da specifici discorsi, abbiamo sistematicamente analizzato 244 dichiarazioni pubbliche (inclusi discorsi, conferenze stampa e interviste) rilasciate nel corso dell'anno da Arafat a partire dal I° luglio 1994, da quando egli prese il controllo della Striscia di Gaza e di Gerico, fino al 30 giugno 1995. Credendo che egli si sia rivolto in modo diverso agli occidentali e ai musulmani, come negli esempi riportati sopra, noi abbiamo classificato quelle dichiarazioni a seconda dell'audience principale (i discorsi in base a dove sono stati pronunciati, le conferenze stampa a seconda della costituzione degli organi stampa – quasi sempre occidentali – e le interviste a seconda della lingua madre dei giornalisti). Complessivamente, un po' più della metà (126) furono rivolte agli occidentali e un po' meno (118) ai musulmani.
Ricusare la violenza. Sono 51 le dichiarazioni grazie alle quali stabilire se Arafat abbia tenuto fede alla sua promessa di scoraggiare l'uso della violenza contro gli israeliani, di esse: 38 sono rivolte agli occidentali e solo 13 ai musulmani. Non solo Arafat ha toccato questo argomento con gli occidentali tre volte di più rispetto ai musulmani, ma i primi hanno ricevuto un messaggio sensibilmente diverso dai secondi. In oltre la metà delle sue dichiarazioni dirette a un pubblico occidentale, Arafat condanna l'uso della violenza. Ad esempio, a un giornalista israeliano, egli disse di aborrire gli attentati suicidi organizzati dalla Jihad islamica nel novembre 1994:
Noi abbiamo una visione molto preoccupante dell'attacco a Netzarim… Respingiamo in toto simili atti. È stato deciso di compiere degli appropriati passi in reazione a ciò. Questi passi consistono negli arresti di attivisti della Jihad islamica. Ne abbiamo arrestati 136.
Un mese dopo, in risposta all'attentato di un kamikaze fattosi esplodere su di un autobus a Gerusalemme, Arafat (attraverso il suo portavoce) definì l'incidente come "un atto criminoso" e auspicò ai feriti "una pronta guarigione".
In tal modo, per gli occidentali Arafat ha mantenuto quanto promesso. Che ne pensa l'audience musulmana? In 13 occasioni nel corso della quali Arafat menzionò la violenza terroristica, non una sola volta egli condannò il suo uso contro gli israeliani. Piuttosto, le sue dichiarazioni rientravano in una di queste tre categorie: evitare l'argomento, attribuire a Israele parte della responsabilità dell'uso della violenza, oppure incitare a una maggiore violenza.
Innanzitutto, Arafat è un campione di elusività, raggiungendo talvolta l'obiettivo attraverso il silenzio. Ad esempio, egli condannò all'istante l'attacco terroristico di Netzarim contro gli israeliani, ma in nessuna delle sue nove dichiarazioni rivolte al pubblico arabo e rilasciate nella settimana successiva all'attentato egli fece mai menzione dell'atrocità perpetrata. Altre volte, divincola dalle domande: quando un quotidiano in lingua araba che esce a Londra, nel febbraio 1995 gli chiese se gli episodi di violenza perpetrati da Hamas contro gli israeliani fossero dei legittimi atti jihadisti, Arafat ignorò con noncuranza la domanda:
Ciò che vorrei dire è che noi tutti dobbiamo rispettare gli accordi conclusi in tempo di guerra e di pace… Io mi chiedo perché Hamas, la Jihad islamica e le fazioni siriane e giordane non abbiano condotto le operazioni dalla Siria e dalla Giordania, in particolar modo da quando esistono dei confini tra la Siria e Israele e tra la Giordania e Israele. Perché ci guardano come se fossimo noi a dover essere considerati responsabili di questo?
Arafat, a quanto pare, non si preoccupa di scoraggiare l'uso della violenza, ma fa in modo che la Giordania e la Siria vengano ritenute colpevoli di ciò.
In secondo luogo, insinua che il governo israeliano sia parzialmente responsabile della violenza perpetrata contro i suoi cittadini. Perché farebbe questo? Per screditare l'Autorità palestinese da lui diretta, e per rallentare il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania. Su queste posizioni, nell'aprile 1995, Arafat asserì che: "L'obiettivo non è Israele, che non è loro ostile [ai membri di Hamas che praticano la violenza]. L'obiettivo di queste operazioni consiste nel permettere a Israele di utilizzare la questione della sicurezza o della mancanza di essa come una scusa per impedire la realizzazione di ciò che noi abbiamo convenuto".
E per finire, Arafat talvolta invita a una maggiore violenza. Nel dicembre 1994, alla VII Conferenza al vertice dell'Organizzazione islamica, egli chiese il proseguo della jihad:
Oggi, sono venuto qui per la prima volta dalla Palestina, la terra che non è stata ancora liberata dall'occupazione israeliana che pesa duramente sul nostro popolo… Lasciate che la nostra jihad vada avanti fino alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, con la santa Gerusalemme come capitale.
Nel maggio 1995, venne rivolto un simile appello a un pubblico arabo: "Ognuno dovrebbe considerarsi una recluta nella feroce battaglia che stiamo combattendo per proteggere Gerusalemme e i suoi luoghi santi".
Insomma, Arafat mantiene la sua parola quando condanna l'uso della violenza davanti agli occidentali che con minore probabilità si sistemano addosso una bomba e fanno saltare un autobus israeliano a Gerusalemme o a Tel Aviv. Ma egli non la mantiene rivolgendosi ai sostenitori arabi; davanti a loro non ha mai condannato uno specifico attacco terroristico contro gli israeliani. Arafat, pertanto, rispetta la lettera ma non lo spirito della sua promessa.
Accettare Israele. Che ne pensa riguardo al fatto se accettare o meno l'esistenza dello Stato di Israele? Sebbene Arafat in quasi tutte le dichiarazioni pubbliche faccia riferimento a Israele (spesso utilizzando il termine "l'occupazione"), solo una ventina di esse affrontano la questione. E in esse, proprio con impetuosità, Arafat invia un messaggio assortito.
Davanti agli occidentali, egli accetta in toto la permanenza di Israele. Ad esempio, nel rivolgersi ai giovani israeliani, in un'intervista rilasciata nel luglio 1994, Arafat parlò di "una nuova era per le nostre nuove generazioni", riferendosi a un distacco dal passato. E proseguì col dire: "È iniziata una nuova era in Medio Oriente. E noi siamo vicini, possiamo coordinare, cooperare, in tutti i settori, per amore dei nostri figli". Sulla stessa linea, nel replicare ai commenti di Faruq Qaddumi, capo del Dipartimento politico dell'OLP, riguardo al "malvagio" nemico Israele e alla sua esistenza (su richiesta di Peres, affinché Arafat condannasse le considerazioni di Qaddumi), il Presidente dell'OLP giudicò la dichiarazione di Qaddumi come incompatibile con l'impegno preso dall'Autorità palestinese nella stipula degli accordi con Israele e disse: "Terrò fede agli accordi con Israele e onorerò ogni missiva che ho scambiato con il primo ministro Yitzhaq Rabin riguardo il reciproco riconoscimento". In altre occasioni, Arafat parlò in modo entusiasta di una pace duratura riguardante la Città santa: "Non ci devono essere muri tra la parte orientale e quella occidentale di Gerusalemme, non ci deve essere nessun muro di Berlino. Gerusalemme sarà un simbolo della pace, del coraggio, della coesistenza tra due popoli: gli israeliani e i palestinesi".
Al pubblico arabo, in modo scontato, Arafat invia un differente segnale. Se egli non disconosce mai la permanenza di Israele, fa però l'evasivo, evidenziando gli obblighi giuridici piuttosto che le linee di azione politiche. Arafat parla in modo plateale di rispettare l'accordo con Israele e non di accettare lo Stato ebraico.
Abbiamo siglato la pace dei coraggiosi [egli disse nel corso di una conferenza stampa del I° luglio 1994]. Le nostre idee possono essere diverse, ma se un bambino palestinese sigla un accordo a nome dei palestinesi, noi ci riterremo vincolati dall'apposizione di quella firma. E così è nel caso in cui i firmatari siano la delegazione o l'Autorità palestinese. Noi edificheremo la pace dei coraggiosi e la preserveremo.
In un discorso pronunciato a Gaza e rivolto a un audience araba, Arafat disse. "Noi lo definiamo [la Dichiarazione dei Principi] un accordo del coraggioso, e l'onoreremo proprio come abbiamo promesso". Con gli arabi, Arafat evita di ricorrere a quel sentimentalismo che occasionalmente manifesta rivolgendosi all'Occidente (riconoscimento reciproco, coesistenza pacifica tra palestinesi e israeliani) a favore di un'approvazione legalista della sacralità dell'accordo.
Valutazione. In centinaia di dichiarazioni, Arafat ha fermamente stabilito un record nell'inviare dei messaggi sostanzialmente diversi agli occidentali e ai musulmani. Egli condanna il terrorismo davanti a coloro che non sono coinvolti in prima persona, glissando invece il problema con coloro che lo sono. Proclama l'esistenza di Israele a chi a sua volta accetta la permanenza di uno Stato ebraico, ma si cela dietro il legalismo, quando si rivolge a coloro che ancora non lo hanno accettato.
I contraddittori segnali lanciati da Arafat non fanno altro che confondere chi li ascolta, accendendo un dibattito circa le sue intenzioni e giustificando due interpretazioni assolutamente divergenti della sua performance. Gli ottimisti mettono in evidenza un Yasser Arafat che rivolgendosi agli occidentali condanna il terrorismo e parla di coesistenza con Israele. I pessimisti rievocano un Arafat, minaccioso di ricorrere alla jihad, che non condanna mai gli specifici attacchi terroristici perpetrati contro i cittadini israeliani davanti ai suoi compagni arabi oppure che non si impegna a una coesistenza a lungo termine con Israele.
Coloro che sono coinvolti in questo dibattito giudicano Arafat a seconda delle loro predisposizioni. Impegnato nel processo di pace, Peres ritiene che Arafat sia filo-occidentale. Timoroso del processo di pace, il Likud pensa che Arafat voglia ancora distruggere Israele.
Ma chi è il vero Arafat? Un indizio potrebbe essere ritrovato nella significativa dichiarazione rilasciata a un quotidiano spagnolo, nell'ottobre 1994, quando gli venne chiesto se fosse diverso dall'Arafat del 1974, da quello che si presentò davanti alle Nazioni Unite con un ramoscello d'ulivo in una mano, e un Kalashnikov nell'altra. "Neanche per sogno!" egli replicò. "Non sono un camaleonte. Non posso mutare pelle". Allora a sentire Arafat, egli è la stessa persona di venti anni fa. Con la sola differenza che, per lo più, egli adesso esibisce un ramoscello d'ulivo per l'Occidente e un Kalashnikov per i suoi compagni arabi.