Daniel Pipes è direttore del Middle East Forum, membro del consiglio d'amministrazione dell'United State Institute of Peace nominato dal presidente George W. Bush ed editorialista pluripremiato per il New York Sun e il Jerusalem Post. Autore di 14 libri, il suo più recente, Miniatures: Views of Islamic and Middle Eastern Politics (Transaction Publishers), è apparso alla fine del 2003. Il suo sito web DanielPipes.org è la fonte di informazioni più consultata specificamente sul Medio Oriente e sull'Islam. Quello che segue è il testo del suo intervento al Middle East Forum, a New York, il 23 marzo 2004.
La recente eliminazione del leader di Hamas, Sheikh Ahmed Yassin, è l'ultimo importante contributo di Israele alla guerra al terrore. E da quel momento si è sviluppata un'interessante discussione sull'utilità di tale azione per gli interessi israeliani. Ci sono verità eterne sulla guerra, e una di queste è la necessità fondamentale di imporre la propria volontà al nemico, cosa che si ottiene demoralizzandolo. Alcuni di noi appartengono alla generazione che ha vissuto la sconfitta dell'America in Vietnam, quindi dovremmo capire che le guerre finiscano solo quando una delle parti si arrende. Pertanto, se teniamo presente che in questo conflitto è davvero in corso una guerra, è irragionevole pensare che l'esecuzione di Yassin andrà a beneficio dei palestinesi e danneggerà gli israeliani.
Gli imperfetti Accordi di Oslo
Si raffronti la situazione odierna con quella di dieci anni fa. Gli Accordi di Oslo erano considerati un ottimo esempio di ciò che il processo di pace avrebbe potuto ottenere. Dopo la sua famosa stretta di mano con Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca, Shimon Peres affermò che il quadro della pace in Medio Oriente era ormai chiaro. Gli accordi sono stati visti come un risultato brillante grazie al quale ciascuna parte ha ottenuto ciò che più desiderava. I palestinesi hanno guadagnato dignità e autonomia, gli israeliani riconoscimento e sicurezza.
Tuttavia, dieci anni e mezzo dopo, è chiaro che questi accordi hanno portato a risultati ben diversi. Per i palestinesi, hanno causato impoverimento, corruzione, fazioni suicide, culto della morte e l'avanzata dell'Islam militante radicale. Per gli israeliani, hanno comportato la raccapricciante cifra di oltre il doppio del numero di persone uccise durante la guerra dei Sei Giorni, declino economico e isolamento diplomatico. Nessuno oggi afferma che questi accordi sono stati un successo.
La mia analisi di ciò che è accaduto implica due presupposti sbagliati da parte del governo statunitense e di quello israeliano. Il presupposto meno errato si fondava sulla fiducia che gli accordi avessero un impatto sulla popolazione palestinese, ma le firme su carta non possono che rispecchiare la realtà e non crearla.
Un errore ancora più grave è stato credere nella promessa dei palestinesi di aver posto fine alla loro guerra esistenziale contro Israele all'inizio degli anni Novanta. Mentre gli israeliani facevano una concessione dopo l'altra nel corso dei successivi sette anni, la risposta palestinese non è stata quella prevista di reciprocità, ma di rabbia e ambizione. L'idea di distruggere lo Stato di Israele, idea che nel 1993 era in declino, è diventata molto viva nel 2000.
L'OLP diventa simile ad Hamas
Nel corso degli anni Novanta, tra i palestinesi si è svolto un vivace dibattito tra due approcci: uno simboleggiato dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), l'altro da Hamas. L'OLP ha riconosciuto che valeva la pena negoziare con Israele per tutti i benefici che avrebbe potuto ottenere dai colloqui di pace, ma Hamas si è rifiutato di piegare i suoi principi e di parlare con il nemico. L'approccio dell'OLP ha predominato negli anni Novanta, ma nel 2000, soprattutto a causa del ritiro israeliano dal Libano, ha preso il sopravvento l'approccio di Hamas. In seguito alle concessioni israeliane fatte a Camp David, nel luglio del 2000, l'OLP ha assunto uno spirito simile ad Hamas.
Il presupposto di Israele (che con Oslo i palestinesi avrebbero apportato un cambiamento strategico piuttosto che tattico) è stata l'essenza di ciò che non ha funzionato con il processo di pace. Le concessioni successivamente fatte da Israele hanno ridotto il timore palestinese nei confronti della forza israeliana, hanno reso lo Stato più vulnerabile e hanno portato a un corpo politico palestinese radicalizzato e mobilitato in cui la speranza di distruggere Israele ha guadagnato sempre più terreno.
Accettazione popolare palestinese di Israele
La politica futura nei confronti di questo conflitto deve quindi riconoscere i presupposti errati che sono alla base di Oslo e di tutti i successivi sforzi diplomatici quasi dimenticati (Mitchell, Zinni, Abdallah, Roadmap, Ginevra...). Deve concentrarsi meno sui leader e più sul corpo politico palestinese, facendo sì che l'accettazione da parte dei palestinesi del diritto di Israele all'esistenza diventi l'obiettivo primario. Le iniziative per affrontare il conflitto arabo-israeliano possono essere giudicate in base a un semplice criterio: qualunque cosa accresca l'accettazione popolare palestinese di Israele è un passo positivo; qualunque cosa la svilisca è una battuta d'arresto.
Una vittoria israeliana in questa guerra significherà l'accettazione da parte dei vicini, soprattutto i palestinesi, del diritto di Israele di esistere. Una vittoria palestinese significa la fine di uno Stato ebraico sovrano. La diplomazia può funzionare solo quando i palestinesi avranno rinunciato alle loro fantasie antisioniste e all'obiettivo dello sterminio.
Gerusalemme dovrebbe tornare alle politiche e ai presupposti precedenti al 1993 riguardo al riconoscimento palestinese dello Stato ebraico; il governo degli Stati Uniti dovrebbe sostenere questa politica.
Le altre due dimensioni del conflitto arabo-israeliano
Oltre al problema dell'accettazione palestinese di Israele, nel conflitto arabo-israeliano esistono altri due problemi che potrebbero essere molto più difficili da risolvere. In primo luogo, la crescita della popolazione non ebraica in Israele potrebbe tradursi in una popolazione musulmana più determinata. Esiste un modello secondo cui quando una popolazione musulmana raggiunge la soglia del 25 per cento diventa ambiziosa in nuovi modi; man mano che la popolazione musulmana in Israele si avvicina a quel numero, possiamo aspettarci una sfida alla natura ebraica dello Stato.
Potenzialmente ancora più grave è la combinazione di antisemitismo e armi di distruzione di massa in Medio Oriente. Oggi, Israele e gli ebrei vengono denigrati nel mondo musulmano in un modo che ricorda la Germania nazista degli anni Trenta, dove furono poste le premesse per la Shoah attraverso la disumanizzazione del vicino ebreo. Un'analoga disumanizzazione degli ebrei sta avendo luogo oggi nel mondo musulmano, e potrebbe essere l'anticamera di una simile violenza. Invece dei campi di sterminio nazisti, i regimi musulmani hanno armi di distruzione di massa da utilizzare come strumenti con cui perseguire un programma genocida. Un ex presidente dell'Iran, Ali Akbar Hashemi-Rafsanjani, ha espresso questo concetto riflettendo sulla prospettiva che un conflitto nucleare con Israele potrebbe convenire, malgrado la morte di milioni di iraniani, se tale conflitto dovesse portare alla distruzione dello Stato ebraico. Questo scenario apocalittico non è una possibilità imminente, ma dimostra quanto siano pericolose le tendenze attuali.
Summary account a cura di Robert Blum, assistente ricercatore al Middle East Forum