Domanda: I media europei considerano spesso Israele lo Stato canaglia della regione. È stato persino detto che la creazione dello Stato è stato un errore. Ritiene che Israele sia uno "Stato canaglia"?
DP: È strano dover ribattere che Israele non è uno Stato canaglia e che invece è un Paese degno di sostegno, poiché sotto ogni profilo è uno Stato libero e prospero, dove regna lo stato di diritto. In sintesi, è un Paese occidentale, il cui tenore di vita e il modo di vivere sono simili a quelli che si riscontrano in Europa e molto diversi da quelli dei suoi nemici nei Territori palestinesi, in Egitto, in Siria, in Giordania, in Iran e così via dicendo. È un ribaltamento dei fatti. Un sondaggio Eurobarometer Flash del novembre 2003 ha rilevato che gli europei vedono Israele come lo Stato più pericoloso al mondo. È una visione singolare che riflette non la realtà di Israele, ma il triste stato della politica europea, una scarsa conoscenza del Medio Oriente, del conflitto arabo-israeliano, dell'identità degli alleati e dei nemici, dei problemi e delle soluzioni. È uno sviluppo preoccupante.
Daniel Pipes intervistato da Anna Masso. |
DP: Negli ultimi anni, ci sono stati dei miglioramenti, in particolare, in seguito ai cambiamenti avvenuti nei governi di un certo numero di Paesi, in particolare la Francia. Ma l'immagine pubblica di Israele ne risente ormai da alcuni anni e ci vorrà molto impegno per vederla cambiare.
D: Ritiene che Hamas debba essere rispettato come forza politica legittima, a causa dell'appoggio popolare incassato nelle elezioni democratiche?
DP: Hamas è un movimento islamista che ha fatto molto affidamento sul terrorismo per raggiungere i suoi obiettivi, e il suo obiettivo principale è l'eliminazione di Israele, per sostituirlo con un ordine islamista. È un movimento terrorista e islamista, è il nemico. Mi sembra strano che qualcuno in Occidente desideri appoggiare Hamas o aiutarlo, quando è chiaramente non solo il nemico di Israele, ma anche dell'intero Occidente. Penso che sarebbe un grave errore legittimarlo e accettarlo.
D: Lei ha scritto la prefazione di un libro di prossima pubblicazione di Jonathan Schanzer sul conflitto tra Hamas e Fatah. Questo conflitto può essere considerato parte dello sviluppo di una democrazia palestinese?
DP: Hamas e Fatah condividono gli stessi obiettivi; entrambi desiderano eliminare Israele. Ma hanno approcci diversi, filosofie diverse, membri diversi, tattiche diverse. Pertanto, a volte lavorano insieme e altre si scontrano, e tra loro non c'è un conflitto permanente o una cooperazione costante: le loro relazioni sono fluide, cambiano nel tempo. La situazione va molto male da un paio d'anni, ma potrebbe benissino migliorare.
D: Il conflitto israelo-palestinese è di natura politica (nazionalista) o teologica?
DP: In definitiva, il conflitto arabo-israeliano si basa sul presupposto musulmano che un territorio che è stato governato da musulmani non dovrebbe essere soggetto al governo di non musulmani: resterà un territorio musulmano per sempre. Il fatto che una popolazione non musulmana arrivi, prenda il potere e governi è fortemente ostile.
Detto questo, nel secolo scorso, ci sono state quattro diverse fasi del conflitto arabo-israeliano, quattro diverse fasi dell'approccio arabo. La prima era pansiriana, e mirava alla creazione della Grande Siria; la seconda era panaraba e aspirava a creare uno Stato arabo più grande: la terza era nazionista palestinese e la quarta, quella attuale, è islamista. Potrebbero essercene una quinta e una sesta. Il fattore determinante non è l'approccio, che cambia ogni pochi decenni, ma piuttosto la profonda convinzione tra i musulmani che Israele è uno Stato illegittimo perché si trova in un territorio che per oltre un millennio è stato controllato dai musulmani.
D: Questo conflitto può finire?
DP: Vedo una possibile fine. Non credo che questo conflitto andrà avanti all'infinito, perché nessun conflitto prosegue per sempre. Ritengo che potrebbe finire tra 20-30 anni, quando i palestinesi si convinceranno che Israele esiste ed è permanente, e si renderanno conto che non c'è nulla che possano fare al riguardo, lo accetteranno e anziché volere eliminare Israele, cercheranno di costruire il loro Stato, la loro economia, la società e la cultura.
L'Islam
D: Lei ha scritto a lungo della distinzione tra Islam e "islamismo" altresì chiamato "Islam militante" o "fondamentalismo". Come spiega la differenza?
DP: L'Islam è una fede personale e ci sono modi differenti di comprendere cosa significhi essere musulmano. Si può essere un sufi, un mistico, essere qualcuno che vive rigorosamente secondo la legge, essere un musulmano di nome senza prestare molta attenzione alla propria fede: tutti questi e altri modi sono possibili all'interno della religione islamica.
L'islamismo è un approccio molto specifico, secondo cui i musulmani sarebbero potenti e ricchi se seguissero la legge islamica in tutti i suoi dettagli. Gli islamisti vogliono applicare la legge ovunque nel mondo e considerano i non musulmani degli esseri inferiori che devono essere sconfitti. È un'ideologia che affonda le sue radici nelle origini dell'Islam, ma è emersa nella sua forma attuale soltanto ottant'anni fa circa. Fa parte dell'Islam, ma non è la totalità dell'Islam.
D: Ma i musulmani integralisti, così come alcuni critici dell'Islam, sostengono che non si può essere un vero musulmano se non si osserva la legge islamica: questo farebbe svanire la differenza tra l'Islam e l'islamismo.
DP: È curioso notare che gli islamisti e coloro che affermano che l'Islam stesso è il problema concordano sul fatto che ho torto e che l'islamismo è l'Islam. Gli islamisti dicono questo perché vogliono presentare la loro versione dell'Islam come l'unica esistente. E quelli che ritengono che il problema sia l'Islam, confondono la religione e l'ideologia. Penso che sia un errore. Anche se a credere che sia così è un occidentale e un non musulmano, gli direi che farebbe meglio ad adottare il mio punto di vista, perché un governo occidentale non può combattere l'Islam. I nostri Stati non sono impegnati nelle Crociate. Pertanto, si deve combattere l'ideologia dell'islamismo, non la religione dell'Islam. Sappiamo combattere le ideologie. Abbiamo combattuto il fascismo e il comunismo e ora c'è l'islamismo. Non possiamo combattere una religione. Pertanto, se si riduce questa ideologia a una religione, allora ci mancano i mezzi per proteggerci.
D: Un Islam non islamista sarebbe quindi un Islam laicizzato e relegato alla sfera privata?
DP: Il termine laicismo ha due significati differenti. Un laicista è una persona non religiosa. Una società laicista è quella in cui la religione è separata dalla politica. L'Islam non islamista non deve essere laicista a livello personale; una persona può essere pia senza essere islamista. Ma deve essere laicista a livello sociale, deve separare la politica dalla religione. Ad esempio, il regime di Atatürk, in Turchia, è laicista: le persone possono essere religiose, ma non possono portare la religione nella sfera politica.
D: Cosa ne pensa del termine "islamofobia", che è stato molto usato di recente in Europa?
DP: Il termine "Islamofobia" è un concetto fondamentalmente errato, perché le persone che sono preoccupate per l'Islam non sono fobiche. La "fobia" implica che nutrono un'avversione immotivata e insensata per qualcosa, mentre le persone che sono preoccupate per il terrorismo, per l'imposizione della legge islamica, per la Sharia, sono alle prese con una serie di problemi reali. Chiamarli islamofobi è ingiusto e delegittimante. Queste sono persone le cui preoccupazioni sono reali e legittime e vanno affrontate.
L'Europa
D: In una recente video-intervista Lei ha detto che in futuro l'Islam in Europa avrà il 5 per cento di probabilità di risultare armonioso e il 95 per cento di possibilità che diventi dominante o che gli europei riprendano il controllo, e che quest'ultima opzione potrebbe portare a un conflitto civile. Potrebbe spiegare meglio cosa intende?
DP: È sorprendente vedere che la maggior parte degli europei vuole credere che europei e musulmani avranno buoni rapporti. Potrebbero esserci problemi oggi, ma saranno risolti in futuro. Tuttavia, non comprendo la fonte di quest'ottimismo. Se si guarda ai musulmani che vivono in Europa si ravvisa una tendenza da parte loro a ritirarsi nelle loro comunità, anziché un impegno a integrarsi. I figli degli immigrati sono più ostili verso la civiltà europea esistente degli immigrati stessi. Da parte europea si riscontra una crescente preoccupazione: il timore della presenza musulmana. Pertanto, la speranza che tutti vadano d'accordo sembra irrealistica e credo abbia ben poche probabilità di materializzarsi.
Invece, le alternative tra dominazione musulmana e riaffermazione europea mi sembrano alquanto equilibrate. Non saprei dire quale di esse sia la più probabile. Le future crisi ci aiuteranno a capire in quale direzione andrà l'Europa.
D: Che tipo di crisi dobbiamo aspettarci oltre a quelle che già conosciamo?
DP: Ci sono state delle piccole crisi. L'affaire Rushdie. L'affaire Foulard. La vicenda del Papa. Non sono state delle reali crisi. Qua è là nel mondo si sono verificati piccoli disordini. Ma niente che abbia portato a grandi cambiamenti. Pertanto, penso che avremo una pausa di cinque, dieci, quindici anni. Non posso prevederlo, ma potrebbe essere qualcosa di simile ai disordini francesi del 2005, ma molto più violenti, non più auto date alle fiamme, ma anche uccisioni di persone. Potrebbe essere l'elezione di un governo che decida di rimandare gli immigrati nei loro Paesi d'origine. Non sono in grado di prevedere la natura degli eventi, penso solo che avremo dei problemi da affrontare che ci mostreranno in quale direzione potrebbe andare l'Europa.
D: Cosa dovrebbero fare gli europei per prevenire una crisi peggiore?
DP: Sono numerosi i passi che gli europei potrebbero compiere. Ad esempio, c'è l'intregrazione degli immigrati musulmani. In generale, i Paesi europei sono a mio avviso delle grandi famiglie. Facciamo parte di una nazione perché veniamo dalla stirpe di quella nazione, lì siamo andati a scuola, ne conosciamo la lingua e condividiamo la sua religione. E ora per la prima volta in assoluto in molti Paesi europei, di fatto, tutti i Paesi europei tranne la Francia, sorge la domanda: Cosa significa essere finlandesi, svedesi oppure estoni? Nessuno doveva spiegarlo fino ad ora. Ora deve farlo. Questa è una crisi. Penso che sia una crisi che va affrontata. Cosa fare con le persone che hanno un aspetto diverso, pregano in modo diverso, mangiano in modo diverso? Come si può creare una nazionalità che li includa?
Inoltre, gli europei devono fare più figli se vogliono sostenere la loro civiltà. I tassi di natalità sono molto bassi in questo momento. Senza cambiamenti significativi, è difficile immaginare come tra un secolo ci possa ancora essere un'Europa molto simile a quella odierna.
Da parte degli immigrati, ci deve essere una maggiore disponibilità a partecipare e ad accettare l'esistenza della civiltà europea, e non cercare di cambiarla, ma di vivere al suo interno.
La libertà di espressione
D: Nel 1990, Lei ha scritto un libro su "L'affaire Rushdie", subito dopo quanto accaduto. Di recente, si sono verificati una serie di conflitti simili a causa di "offese all'Islam" in Occidente. È cambiato qualcosa dall'affaire Rushdie ad oggi?
L'affaire Rushdie ha destato sconcerto perché per la prima volta in assoluto i musulmani hanno affermato ciò che si poteva o meno scrivere o dire in Occidente. Gli altri casi, e sono stati molti, hanno ribadito e confermato questo punto. Col passare del tempo, i musulmani sono diventati più determinati a limitare la libertà di espressione: ad esempio, alle Nazioni Unite cercano di avere una base legale per vietare tale libertà. Gli occidentali in generale, gli europei in particolare, sono sempre più a disagio riguardo a tali restrizioni.
D: La pressione delle Nazioni Unite per vietare la "diffamazione della religione" in tutto il mondo costringerà l'Occidente ad accettare che nel mondo sempre più interconnesso e multiculturale la libertà di parola non sarà più quella di una volta, almeno quella che è stata negli ultimi decenni?
DP: In molti Paesi occidentali, stiamo assistendo a una reale limitazione della libertà di espressione. In Arabia Saudita, all'inizio di quest'anno, si è verificato uno sviluppo curioso al riguardo, quando al consiglio direttivo saudita è stato chiesto di confermare l'idea che nessuna critica alla religione debba essere mossa. Il consiglio, però, ha respinto la richiesta perché secondo i suoi membri il divieto di critica si sarebbe esteso anche alle religioni politeiste, cosa da loro ritenuta "inaccettabile". La reale intenzione è dunque quella di proteggere l'Islam e sarei molto sorpreso se venisse approvata una legge del genere.
D: Insomma, se il divieto di critica religiosa si applicasse a tutte le religioni, i musulmani non sarebbero d'accordo?
DP: Esatto, proprio così.
D: In merito a quello che si può e non si può dire, Lei ha scritto che lo stesso Occidente, e anche gli Stati Uniti, trovano sempre più difficile dare un nome al nemico nella "guerra al terrore"?
DP: È difficile per gli occidentali moderni parlare apertamente di problemi di questo tipo. Ciò deriva da un senso di sicurezza e dalla sensazione che sia scortese e inutile parlare senza mezzi termini. È meglio parlare in modo indiretto e cautamente. Ma in tempo di guerra, penso che si debba parlare chiaramente dell'identità del nemico. Ad esempio, se prendiamo le dichiarazioni del presidente George W. Bush scopriamo che inizialmente erano molto vaghe per poi diventrare più precise, e ora sono di nuovo vaghe. Questo è piuttosto tipico dell'Occidente nel suo insieme, con la sua incertezza su come capire chi sia il nemico e quale sia la natura di questa guerra. Questo è problematico. Sono passati quasi sette anni dall'11 settembre, sono trascorsi quasi 30 anni dall'assalto all'ambasciata americana a Teheran, e in tutto questo tempo il governo americano non ha ancora compreso chi è il nemico e qual è il problema.
D: Lei che nome darebbe al nemico?
DP: Chiamerei il nemico Islam radicale o islamismo. È un movimento, un sistema di pensiero. Come il fascismo e il comunismo.
D: Parlare di questo conflitto è diventato ancora più difficile negli ultimi anni?
DP: Ci sono così tante correnti opposte. Mi è difficile generalizzare, dire qual è la tendenza e in quale direzione andranno le cose. Si potrebbe dire che attualmente ci sono una gran quantità di eufemismi e discorsi indiretti, e che le cose non sembrano migliorare.
D: Prima dell'11 settembre anche i media di Sinistra parlavano di "fascismo islamico". Ora è diventato impensabile.
DP: Stiamo assistendo a un'intensificazione dell'alleanza tra la Sinistra e l'islamismo. Questo risale alla visita fatta da Michel Foucault a Teheran, nel 1978-1979. Ero molto entusiasta di vedere cosa stava accadendo. Le sue opinioni inizialmente incontrarono una notevole resistenza all'interno della Sinistra, ma col tempo quella resistenza venne erosa. Penso che l'evento cardine abbia avuto luogo nel febbraio 2003, quando in tutta Europa gli islamisti e la Sinistra si organizzarono insieme contro l'imminente guerra in Iraq. Questo creò le basi del loro legame.
Hanno gli stessi obiettivi: si oppongono alle stesse idee e alle stesse istituzioni, agli stessi Paesi e alle stesse persone. Non sono a favore delle stesse cose, ma sono contrari alle stesse cose. Pertanto, la loro non è affatto un'alleanza profonda, non cooperano a livello strategico, ma solo a livello tattico. È così ovunque in Occidente.
È interessante notare che lo stesso fenomeno non si riscontra nel mondo musulmano. In Turchia, ad esempio, alle elezioni dello scorso anno gli oppositori degli islamisti hanno votato per la Sinistra. In Egitto, in Pakistan e altrove, la Sinistra e gli islamisti si fronteggiano sistematicamente. Ma in Occidente, e non solo, lavorano a stretto contatto, così come in India. E questo è molto preoccupante. È un'alleanza paragonabile a quella fra Hitler e Stalin, che allora era un'alleanza rosso-marrone, mentre oggi è rosso-verde, verde come il colore dell'Islam. È un grande pericolo per il mondo civilizzato.
D: Quest'alleanza è particolarmente confusa perché gli obiettivi del movimento islamista sembrano più di estrema Destra che di Sinistra.
DP: Si comprende meglio quest'alleanza se la si considera negativamente, senza cercare di vedere cosa hanno in comue gli islamisti e la Sinistra. Non hanno principi in comune. Il socialismo, l'uguaglianza di genere e la fede in Dio non sono condivisi. Ma possiamo capire che cosa li unisce, rilevando contro cosa combattono: George W. Bush è uno dei simboli, ma più in generale possiamo menzionare la civiltà occidentale, in particolare gli Stati Uniti, il Regno Unito, Israele, gli ebrei, i cristiani praticanti, la globalizzazione.
D: Quindi, quando le universitarie femministe che si battono per la difesa dei diritti LGBT definiscono "progressisti" Hamas e Hezbollah, è di questo che si tratta: un nemico comune?
DP: Le femministe che ignorano ciò che dice l'Islam lo fanno perché in questo momento è strategicamente utile. Come in Iran negli anni Settanta, la Sinistra e gli islamisti lavorarono insieme contro lo Scià. Una volta rovesciato lo Scià, entrambi avevano obiettivi completamente opposti e si sono sconfitti a vicenda. Pertanto, questa è solo una tattica, soltanto fino a quando c'è l'avversario. Ma se questo viene sconfitto, allora le differenze diventano evidenti, poiché ognuno persegue obiettivi molto diversi.
La politica degli Stati Uniti
D: Cosa ne pensa del termine "neoconservatore"? Accetta di essere definito così?
DP: Sono indeciso. Ci sono forse 40 o 50 neoconservatori nel mondo. Non è proprio un grande movimento. E si ritiene che abbiano tanto potere. Pertanto, mi piace l'idea di essere uno di loro. D'altra parte, se si considerano certe posizioni politiche, come la guerra in Iraq o i tentativi di democratizzare rapidamente il Medio Oriente, ritengo che abbiamo forti divergenze. Quindi, non credo che quel termine mi si addica.
D: Di recente, Lei ha scritto che non esclude un possibile attacco all'Iran da parte degli Stati Uniti. In questo conflitto, l'Europa considera ancora una volta gli Stati Uniti il principale aggressore potenziale.
DP: Gli europei si concedono il lusso di non prendere decisioni difficili. E questo perché sanno che gli Stati Uniti sono lì per farlo in loro vece, e poi potranno criticare gli USA. Ritengo che dalla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti abbiano commesso un errore ad assumersi troppe responsabilità. Per quanto concerne i rapporti con i sovietici e altri, avremmo dovuto dire: "Beh, se ritenete che non stiamo operando in modo corretto, allora fate voi. Se non siete soddisfatti, se non volete i missili Pershing, nel 1981-1982, fate pure, arrangiatevi con i sovietici". E ora è la stessa cosa: "Se pensate che sia tollerabile che l'Iran possieda missili, d'accordo, non vi proteggeremo". Ciò creerebbe una sensazione maggiore di realismo. Purtroppo, però, noi prendiamo l'iniziativa e gli altri poi ci criticano per questo. Sarebbe molto più costruttivo per gli europei dover prendere loro stessi decisioni difficili anziché limitarsi a criticarci. Noi americani facciamo agire gli europei come bambini che non devono prendere decisioni rilevanti, perché siamo noi a farlo per loro. Non credo che ciò faccia bene né agli europei né a noi stessi.
D: Un'integrazione europea più stretta renderebbe il Vecchio Continente un'unità più "adulta"?
DP: Credo che l'Unione Europea abbia i suoi limiti. È un'unione utile a livello economico e politico, ma non dovrebbe cercare di essere qualcosa di più di una confederazione. Non dovrebbe diventare un unico Stato. Sarebbe un errore, data la storia dell'Europa. Anche trasformare l'UE in un'unità militare sarebbe un errore. Ritengo che la NATO sia molto meglio.
D: In che senso le imminenti elezioni presidenziali statunitensi sono importanti per il mondo?
DP: Barack Obama trasformerebbe le politiche del governo statunitense in politiche europee. Gli Stati Uniti diventerebbero un'entità politica di tipo europeo, contrapposta a ciò che sono stati per almeno alcuni decenni. Pertanto, abbiamo davanti a noi una serie di scelte di fondo, più fondamentali che mai dal 1972, quando [il candidato democratico] George McGovern aveva altresì un approccio europeo di Sinistra.