Daniel Pipes è stato il primo esperto ad essere citato nelle pagine di Insight. Quando uscì il primo numero della rivista, il 23 settembre 1985, nell'articolo di copertina su Hafez al-Assad, al secondo paragrafo Pipes venne definito come uno dei principali studiosi americani di affari siriani e menzionato in merito all'uso intenzionale della brutalità da parte del regime siriano contro la propria popolazione.
Negli ultimi 17 anni, Pipes ha dimostrato più e più volte quanto bene comprenda la Siria e il Medio Oriente in generale. All'inizio del 2000, fu l'unico – nessun'altra voce si unì alla sua – a prevedere pubblicamente che al-Assad non avrebbe firmato un accordo anticipato con Israele. Pipes rimase coerente, nonostante il diffuso scetticismo, e nel giugno 2000 il leader siriano morì senza aver firmato un simile accordo.
Daniel Pipes è stato anche uno dei pochi studiosi americani ad allertare un'inconsapevole e ignara opinione pubblica mondiale sui pericoli dell'Islam militante. Nel 1995, ignorato dalla maggior parte degli occidentali, scriveva che l'Islam militante aveva dichiarato unilateralmente guerra all'Europa e agli Stati Uniti. Ma è stato soltanto dopo i terribili fatti dell'11 settembre 2001 che Pipes si è messo in luce, spiegando a un Paese confuso e fortemente preoccupato chi è il suo nemico e perché.
Dopo l'11 settembre, il sito web di Pipes (www.danielpipes.org) ha registrato un aumento esponenziale delle visite. Nel suo nuovo libro, Militant Islam Reaches America , il politologo analizza la sfida lanciata agli Stati Uniti da parte dell'Islam militante e invita gli americani a prendere molto sul serio questa minaccia.
Insight: Nella guerra americana contro il terrorismo, che spesso è stata definita come un nuovo tipo di guerra, chi è il nemico?
Daniel Pipes: Dopo l'11 settembre, conosciamo tutti la risposta. Non c'è dibattito. Il nemico strategico numero uno degli Stati Uniti è l'Islam militante.
Insight: Che tipo di minaccia rappresenta l'Islam militante per l'America e per l'Occidente? Qual è la sfida che dobbiamo affrontare?
DP: L'Islam militante è un'ideologia utopica radicale sulla falsariga del fascismo e del marxismo-leninismo. Sebbene i dettagli differiscano, così come quelle ideologie, l'Islam militante cerca di usare mezzi totalitari per rovesciare i governi, trasformare gli esseri umani e dominare il mondo. È una formula che è fin troppo familiare. Se si è conoscenza delle barbarie del fascismo o del comunismo, si riconosce facilmente la stessa minaccia generale dell'Islam militante.
Insight: Zaid Shaker, ex cappellano musulmano alla Yale University, ha affermato che l'ordine americano esistente è contrario ai comandi e ai precetti di Allah. Le autorità statunitensi quanto prendono seriamente quest'accusa?
DP: Il governo non la prende sul serio. Si è reso lentamente conto della minaccia violenta, ma è ancora pressoché ignaro di quella politica. Se sono stati compiuti alcuni passi nella guerra al terrorismo, in particolare contro i Talebani in Afghanistan, non c'è ancora la volontà di affrontare l'Islam militante all'interno dei nostri confini.
Insight: Perché definisce la risposta del governo come lenta?
DP: Perché l'11 settembre non è affatto stato il primo attacco contro l'America. L'assalto da parte dell'Islam militante ebbe inizio nel 1979 quando l'Ayatollah Khomeini salì al potere in Iran al grido di "Morte all'America!" Da allora gli Stati Uniti hanno pianto centinaia di morti per mano dell'Islam militante. Stimo che ci siano stati circa 600 omicidi prima dell'11 settembre.
Insight: Le nostre autorità governative stanno proteggendo sufficientemente il popolo americano dai pericoli presentati dall'Islam militante?
DP: Non abbastanza, perché non sono disposti a dichiarare che l'Islam militante è il nemico strategico. Al contrario, si accontentano di affermare che il vero Islam è una religione di pace. Dobbiamo prendere più seriamente l'Islam militante.
Insight: Sul serio, in che senso?
DP: La sicurezza aerea offre un chiaro esempio. Essere seri significa rafforzare il controllo di coloro che sono più inclini a commettere atti di terrorismo, cosa che in questo momento è illegale. Invece, il governo consente solo controlli casuali. Al personale di sicurezza deve essere consentito di concentrarsi sui comportamenti, sui nomi, sull'aspetto fisico e su cose del genere.
La profilazione è deplorevole perché urta la nostra sensibilità. Ne prendo atto. Ma abbiamo la possibilità di scegliere tra il dare priorità alla sensibilità o alla sicurezza.
Se non facciamo della sicurezza la nostra massima priorità, prevedo più successi da parte dell'Islam militante, forse su scala molto più ampia dell'11 settembre. Vorrei che facessimo sul serio senza essere spinti dalla prospettiva di altri disastri.
Insight: C'è il multiculturalismo dietro questo problema?
DP: Fa parte del problema. È un ostacolo che impedisce di cogliere il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.
Insight: Lei ha segnalato gli sforzi nonviolenti in atto da parte degli islamisti per trasformare gli Stati Uniti in uno stato islamico. Quali sono questi tentativi?
DP: Si tratta, fondamentalmente, di tentativi finalizzati a rimpiazzare la Costituzione con il Corano. Ora stiamo assistendo in Occidente a una spinta ideologica da parte degli islamisti, i quali portano con sé un'ideologia che richiede che la nostra società sia trasformata in una società islamica attraverso mezzi legali, vale a dire l'immigrazione, la conversione e la riproduzione naturale.
Sebbene questi siano mezzi assolutamente legittimi, dobbiamo però chiederci: vogliamo un ordine islamista? Vogliamo vivere sotto qualcosa sulla falsariga dell'Afghanistan o dell'Iran? Personalmente direi di no. Tuttavia, ognuno di noi deve fare i conti con tali domande. Sollevano questioni a cui non abbiamo mai dovuto pensare in passato.
Insight: Qual è la probabilità che al-Qaeda possieda armi nucleari?
DP: Non ne ho una conoscenza specifica. Posso soltanto dire che ha cercato di ottenere capacità nucleari e che i suoi membri sono tecnicamente competenti, terribilmente ambiziosi e decisamente dediti alla loro causa, pertanto, non lo escluderei.
Insight: Pensa che ci sia un nesso tra gli studi sul Medio Oriente così come sono stati condotti nelle università americane ed europee e gli attacchi terroristici dell'11 settembre?
DP: Sì, indirettamente. Gli studiosi si sono scusati per l'Islam militante e hanno respinto le sue attività terroristiche. Hanno dichiarato che l'Islam militante è una fonte di democratizzazione e di società civile. Prima dell'11 settembre, gli accademici liquidavano abitualmente uno scenario così catastrofico, come quello accaduto, come assurdamente inverosimile. Per quanto riguarda l'Islam militante, constatiamo che gli studiosi attivi nell'ambito degli studi mediorientali hanno mostrato una evidente mancanza di giudizio.
Insight: Le università hanno cambiato il loro approccio agli studi mediorientali dopo gli attacchi dell'11 settembre? Possiamo ora aspettarci valutazioni più realistiche dell'Islam militante e delle minacce che pone?
DP: Non vedo miglioramenti. Non ci sono stati mea culpa o altre ammissioni di errori commessi. Piuttosto, prevale un senso di negazione da parte degli studiosi di Medio Oriente. Peggio ancora, tendono ad additare la politica statunitense come causa delle atrocità dell'11 settembre anziché incolpare l'Islam militante.
Insight: Quanto è importante la concertazione tra il mondo accademico e il governo per comprendere il Medio Oriente?
DP: È molto importante, perché gli studiosi hanno tanto da offrire al governo. Purtroppo, tuttavia, gli accademici sono riluttanti ad assistere il governo nelle questioni relative alla sicurezza, ritenendo che ciò li contaminerebbe.
Di norma, gli accademici vogliono soldi dal governo solo se gli studi che conducono non sono di alcuna utilità per il governo! E si noti questo: prendere i soldi dal governo degli Stati Uniti a volte è molto contestato nelle università, ma non è discutibile ricevere denaro dal governo libico e da quello saudita.
Insight: A chi deve rivolgersi allora il governo per ottenere informazioni sul Medio Oriente e sui suoi regimi?
DP: All'esiguo numero di analisti in seno al governo, ai think tank e ad altre istituzioni non accademiche. Sono loro a fare il lavoro duro, fornendo a Washington informazioni accurate, parlando all'opinione pubblica e fornendo analisi utili in modo tempestivo. Di fatto, fanno ciò che gli accademici non fanno. Di conseguenza, questo gruppetto di studiosi di Medio Oriente è oberato di lavoro.
Insight: Lei è stato chiaro e coerente nel fermo sostegno offerto ai regimi musulmani moderati. L'islamismo militante rappresenta un pericolo per queste società moderate, proprio come lo è per la nostra?
DP: Sì. Esiste una profonda differenza tra le nazioni che sostengono l'Islam militante e quelle che si oppongono. Le prime vittime dell'Islam militante sono gli stessi musulmani, siano essi personaggi famosi come [gli scrittori] Salman Rushdie e Taslima Nasreen, o le masse oscure, come le oltre 100 mila vittime della guerra civile algerina.
I musulmani moderati sono i primi a soffrire a causa dell'Islam militante. Sono alleati naturali nella guerra americana al terrorismo.
Insight: Esiste ora un movimento per riformare l'Islam dall'interno? Che tipo di ricerca interiore è in corso nel mondo musulmano in questo momento sulla natura della società islamica e sul suo futuro nel mondo moderno?
DP: Ce ne sono alcuni, ma non molti. Alcuni leader musulmani illuminati riconoscono che esiste un problema serio. Comprendono la necessità di smettere di incolpare gli altri [per i loro problemi]. Si rendono conto dell'esigenza di risolvere le questioni in sospeso, di condurre un dialogo riflessivo e di analizzare la loro storia.
Sono propenso a credere che l'Islam moderato sia probabilmente formulato dai musulmani che vivono in Occidente e non da quelli che vivono nel mondo musulmano tradizionale. La libertà di espressione funge da stimolo e noi [in Occidente] possiamo permetterci il lusso di testare idee e pensieri contraddittori o alternativi. Purtroppo, il mondo musulmano ha avuto secoli per lavorare su questo problema, ma non è riuscito a trovare risposte.
Insight: Passiamo a parlare di ciò che sta accadendo in Israele. Ritiene che vi sia una fine della violenza palestinese?
DP: Sì, credo che sia così. Probabilmente [nel corso di] quest'anno solare i palestinesi si renderanno conto di essere in un vicolo cieco e si fermeranno.
Insight: Potrebbe illustrare questa previsione?
DP: C'è una guerra in corso e deve essere compresa nel contesto della guerra. Ciascuna parte tenta di sconfiggere l'altra. Ognuno cerca di imporre la propria volontà. Alla fine, una parte ammetterà la sconfitta e rinuncerà ai propri obiettivi.
Saranno gli israeliani a rinunciare all'impresa sionista o saranno gli arabi a rinunciare ai loro tentativi di distruggere Israele? Oggi si assiste a una gara tra palestinesi e israeliani. Anche se la forza militare è molto importante, alla fine la vittoria è una questione psicologica. Direi che otto mesi fa gli israeliani stavano perdendo e i palestinesi erano ambiziosi e ottimisti. Oggi, vedo la situazione ribaltata. Sì, i palestinesi uccidono quotidianamente gli israeliani, ma i primi non hanno più slancio o senso di movimento. I palestinesi presto si renderanno conto che non possono sostenere questa battaglia e la loro volontà in quel momento si spezzerà.
Insight: A cosa attribuisce questo ribaltamento e questa perdita di obiettivi? All'elezione di Ariel Sharon [come primo ministro israeliano], a un cambiamento di strategia o a qualche altra causa?
DP: A un cambiamento più profondo in Israele rispetto a quello riflesso dall'elezione di Sharon. Ecco cosa è successo: la violenza palestinese è iniziata quattro mesi dopo il ritiro di Israele dal Libano, nel maggio 2000. I palestinesi hanno concluso che avrebbero potuto ottenere la stessa cosa cacciando le forze israeliane dalla Cisgiordania e da Gaza o, peggio ancora, incitando la lotta civile in Israele.
In realtà, è successo il contrario. La violenza palestinese ha riunito gli israeliani e rafforzato la loro solidarietà. I palestinesi hanno commesso un grave errore e lo hanno reiterato per un anno e mezzo.
Insight: Il processo di Oslo ha portato alla crisi attuale?
DP: Ha avuto un ruolo importante. Ha rappresentato un errore storico da parte di Israele. Dopo aver lavorato per decenni per guadagnarsi una reputazione di durezza, nel 1993, gli israeliani hanno deciso di allentare la presa. Non sarebbero più stati i duri. Piuttosto, avrebbero fatto accordi con palestinesi, siriani e altri nella regione.
Ebbene, questo riavvicinamento non è stato interpretato dagli arabi come sperava il governo israeliano. Piuttosto, lo hanno visto come un segno che Israele era debole e disperato. Gli arabi hanno capito che era giunto il momento di attaccare gli ebrei, e lo hanno fatto.
Insight: Qual è la conseguenza di Oslo?
DP: La principale preoccupazione degli Stati Uniti in questo teatro è evitare una guerra totale arabo-israeliana. Ma il disastro di Oslo ha portato a molti più conflitti di quanti ne esistessero un decennio prima.
Innanzitutto, ritengo che questo sia un errore israeliano accettato da Washington. Per diversi anni, gli israeliani non hanno mostrato la normale preoccupazione che uno Stato manifesta per la propria sicurezza. Tutti hanno perso, inclusi gli arabi, che ora sono coinvolti in un conflitto con Israele in un modo che impedisce loro di costruire le proprie economie, aprire le loro politiche e svilupparsi culturalmente. I palestinesi trarrebbero grandi benefici se dimenticassero di voler distruggere Israele.
La conseguenza di Oslo è che gli israeliani vengono massacrati nelle loro stesse strade mentre tra i palestinesi serpeggia l'orribile preoccupazione di distruggere Israele.
Con l'incoraggiamento arabo e americano, gli israeliani hanno gettato via il vantaggio che hanno coltivato con cura. E ora loro, gli arabi e gli Stati Uniti pagheranno potenzialmente un prezzo elevato. Perdono tutti. Non si può inseguire ogni piano partendo dal presupposto che non c'è niente da perdere. C'è molto da perdere.
Insight: I palestinesi vivono fianco a fianco con gli israeliani. Testimoniano la democrazia su una scala mai vista nel mondo arabo. Non desiderano eguagliare quelle istituzioni democratiche e quelle opportunità economiche?
DP: No, non è una grande priorità. La massima priorità, fino ad ora, è stata quella di distruggere Israele.
Insight: E questo è il loro obiettivo?
DP: Sì. Finora. L'obiettivo palestinese è quello di distruggere Israele; l'obiettivo di Israele è essere accettato dai suoi vicini arabi. Già nel 1990 scrissi che non vedevo alcun compromesso, che ci può essere uno Stato di Israele o uno di Palestina, ma non entrambi. Prevarrà l'uno o l'altro.
Insight: Chi prevarrà?
DP: Credo che prevarrà Israele.
Paula R. Kaufman è una freelance che ha redatto questo articolo su incarico della rivista Insight.