Intervistato da Sara Lehmann.
Cosa l'ha spinta a sviluppare un interesse per lo studio dell'Islam?
Ai tempi del college, mi sono recato in Medio Oriente e in Africa ed ero curioso di saperne di più. Di conseguenza, sono passato dall'essere uno studente di matematica allo studio del Medio Oriente e dell'arabo. Innanzitutto, ho cercato di comprendere l'impatto dell'Islam sulla vita della gente, che si trattasse di musulmani o no, non tanto la teologia ma il ruolo storico dell'Islam. Il mio dottorato di ricerca era focalizzato proprio su questo argomento: comprendere il ruolo dell'Islam nella politica e nella vita pubblica. Non ho mai perso di vista l'argomento, ma mi sono dedicato anche ad altro, ad esempio, ho fondato il Middle East Forum.
Che tipo di idee Lei vorrebbe promuovere attraverso la sua organizzazione?
Con il crollo del muro di Berlino e la firma degli Accordi di Oslo, ho pensato che fosse un buon momento per creare un think tank che guardasse al Medio Oriente propriamente nell'ottica degli interessi americani. Da storico, ritengo che occorra una prospettiva storica del quadro generale. Tale quadro è cambiato in 29 anni, ma l'idea di fondo di tenere conto degli interessi americani è sempre valida. L'aggiunta importante è stata quella di tenere conto anche dell'Islam in Occidente.
Lei è considerato un esperto in materia e un critico schietto dell'Islam radicale, che è responsabile di gran parte del terrorismo islamico. Come spiega le radici del terrorismo in relazione alla religione e alla cultura islamica?
L'Islam è la religione più politicizzata, le cui regole che governano la vita pubblica sono decisamente valide. Per applicare le leggi islamiche pubbliche è necessario avere un governante musulmano. Pertanto, l'Islam per sua natura include un bisogno di potere. Questo significa che se governano i non musulmani occorre sostituirli con dei governanti musulmani; se a governare sono i musulmani, vanno rimpiazzati con governanti che applichino le leggi. È una dinamica potente nell'Islam. Il moderno movimento islamista si avvale di ciò e ne fa un elemento centrale del suo programma all'insegna del "potere, potere, potere". È influenzato dai movimenti radicali occidentali del XX secolo come il fascismo, in modo da avere qualcosa come i talebani o l'ISIS dove l'Islam è fondamentale, proprio come lo è il marxismo. Non c'è alternativa, mentre l'Islam tradizionale era molto meno esigente.
Una volta Lei ha detto che "l'Islam radicale è il problema e l'Islam moderato è la soluzione". Quanti musulmani moderati ci sono rispetto ai radicali e come possono moderare l'Islam?
Quando venti anni fa mi venne in mente quella formula, i moderati erano davvero pochi. Sono molto più visibili ora di quanto non lo fossero allora. Hanno più voce in capitolo, adesso sono più combattivi e meglio organizzati. Si possono trovare in seno ai governi, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il principe ereditario dell'Arabia Saudita Mohammed bin Salman, per citare due figure importanti. Lo si può vedere in Occidente. Negli Stati Uniti, ora ci sono musulmani che combattono apertamente la variante islamista con libri e piattaforme. Ma c'è molta strada da fare.
A suo avviso, gli Accordi di Abramo sono un risultato positivo di questo processo?
Sì. Il processo è realmente iniziato sotto la presidenza Obama con il governo degli Stati Uniti che da un lato ha sminuito l'importanza del Medio Oriente e dall'altro ha cercato di rabbonire il governo iraniano. Ciò ha destato molto allarme in Medio Oriente, soprattutto nel Golfo Persico, e Israele era lì come alternativa agli Stati Uniti. Non è stata la debolezza dell'islamismo, quanto quella degli Stati Uniti a indurre gli Emirati e altri a fare più affidamento su Israele.
In un discorso all'AIPAC, Netanyahu ha di recente affermato di essere ottimista perché "i leader arabi hanno cambiato opinione su Israele e ora ci vedono come partner e non come nemici". Eppure, Israele è stato duramente condannato da parte di Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Giordania per la visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio. Ritiene che questi Paesi islamici siano affidabili come "partner" se mai credessero che la loro religione viene messa in discussione?
Due mesi fa ho pubblicato su Commentary un articolo titolato "Israel's Partial Victory", ("La vittoria parziale di Israele", ripubblicato da L'Informale, N.d.T.), in cui sostenevo che i Paesi arabi sono stati in guerra con Israele per venticinque anni, dal 1948 al 1973. Sono cinquant'anni che hanno deposto le armi, con due piccole eccezioni nel 1982 e nel 1991. Vi hanno rinunciato. Non tutti però, non il governo siriano. In genere, i governi arabofoni hanno raggiunto accordi con Israele. È vero. Gli israeliani vendono loro ingenti quantità di armi. Non si vendono grosse forniture militari a un governo che pensi ti si possa rivoltare contro.
Ma come Lei ha rilevato, ci sono dei veri dissidi, e Gerusalemme, di norma, e il Monte del Tempio, in particolare, sono i contrasti più controversi e intrisi di carica emotiva. Tendenzialmente, le relazioni bilaterali dei Paesi arabi con Israele sono migliori di quelle multilaterali. Che si tratti di Lega Araba, di organizzazioni islamiche o delle Nazioni Unite, beh, sono puntualmente negativi riguardo a Israele, ma in termini di relazioni bilaterali tendono ad essere positivi. Ci sono tensioni, ma non credo siano così gravi da mettere a repentaglio i rapporti. Ciò che invece potrebbe farlo è la possibilità che gli iraniani diventino ancora più minacciosi e gli Emirati e altri si spaventino e si allontanino da Israele.
Benjamin Netanyahu all'AIPAC. |
All'opposto, cosa accadrebbe se la minaccia iraniana svanisse, forse a seguito del cambio di regime dovuto alle manifestazioni di protesta in corso e se ciò che inizialmente univa questi Paesi a Israele si dissolvesse? Ci sono sufficienti motivazioni economiche o di altro tipo per giustificare la tenuta degli Accordi di Abramo?
Questa è una domanda interessante. Sono propenso a rispondere sì. Penso che questa sia una dinamica a più lungo termine e che prosegue. Il nemico comune iraniano è un catalizzatore. Se si eliminasse tale minaccia, non credo che gli ottimi rapporti ne risentirebbero. La questione palestinese resta un problema, ma non è sufficiente per segnare una battuta d'arresto di tali rapporti. I Paesi arabi sono passati da una feroce ostilità, che contraddistinse gli anni che vanno dal 1948 al 1973, a rapporti complessivamente più tranquilli, inclusi sei accordi di pace.
Lei è il promotore del cosiddetto Israel Victory Project che riguarda le relazioni israelo-palestinesi. Può spiegare di cosa si tratta, e dirci che tipo di sostegno ha ottenuto dentro e fuori Israele?
Molte persone hanno parlato della necessità di far capire ai palestinesi che Israele c'è e che il suo governo non può essere sconfitto. Israel Victory compie un ulteriore passo avanti e afferma che non solo i palestinesi devono capire che Israele non sarà sconfitto, ma sostiene altresì che i palestinesi devono essere sconfitti. Questo va oltre rispetto a chiunque altro.
I nostri sforzi al Congresso degli Stati Uniti sono stati abbastanza efficaci. Nel 2017-2018, abbiamo avuto un caucus di 35 membri alla Camera dei Rappresentanti. Poi abbiamo abbandonato quella sede e ci siamo concentrati su Israele, sulla Knesset e su molte altre istituzioni. Stiamo riscontrando che l'idea, che è piuttosto radicale, è stata accolta con grande favore.
Come definirebbe la sconfitta?
In modo molto semplice. La sconfitta è imporre la propria volontà al nemico, qualunque esso sia. In questo caso, sarebbe accettare l'esistenza permanente di Israele. La mia ricerca rileva che nel secolo scorso circa il 20 per cento dei palestinesi lo ha accettato. Gli arabi hanno svolto un ruolo molto importante, soprattutto nel periodo precedente all'indipendenza, quando vendevano terra, informazioni e armi, e fornivano ogni tipo di aiuto agli ebrei. L'altro 80 per cento non lo accetta, e l'obiettivo deve essere quello di aumentare quel 20 per cento per raggiungere il 40-60 per cento.
Come si riesce a farlo?
Questa è la sfida. Innanzitutto, occorre farne un obiettivo, cosa che il governo israeliano non fa. Prendiamo Gaza. L'obiettivo attuale è soltanto quello di mantenere la calma. La mia tesi è che l'establishment della sicurezza israeliano – l'IDF, i servizi di intelligence, la polizia e altre agenzie – desidera soltanto la calma. Non vuole razzi o missili che arrivano da Gaza e questo è ammissibile. Io dico che non lo è.
La mia tesi è che ci sono tre pericoli. Il primo è costituito dalla violenza, che si tratti di missili o di attacchi con coltello. Il secondo pericolo è, ancora una volta, dato dal fatto che gli Stati Uniti e i governi europei fanno la fila per condurre un processo di pace, che io definisco processo di guerra ed è controproducente. Il terzo pericolo, forse il più importante, è la virulenta ostilità verso Israele che dilaga in tutto il mondo – a Sinistra, tra i musulmani, da parte dell'estrema Destra, tra i vari dittatori e tra alcuni elementi cristiani. Nessun Paese è oggetto di tanta ostilità come lo è Israele. Finora, ciò non ha avuto molto impatto. Israele è prospero e, pertanto, gli israeliani tendono a minimizzare tale pericolo. A mio avviso, non bisogna essere così noncuranti.
Efraim Inbar. |
No. Efraim Inbar, uno stratega di Destra, definisce i palestinesi un "fastidio strategico", vale a dire, ci convivi. La violenza è un problema, ma soprattutto genera un'ostilità contro Israele che gli israeliani tendono a ignorare, compreso l'attuale governo. Si concentrano sulla violenza, ma non sulle ripercussioni internazionali. Credo che s'ignori questo pericolo.
Pensa che "ignorarlo" possa essere la risposta di Israele a quella minaccia, proprio perché Israele si rende conto dell'opposizione internazionale? E Israele potrebbe procedere con cautela nei confronti dei palestinesi per non infiammare le critiche a livello mondiale?
No. La mia impressione è che nella Destra predominante (la Sinistra è sostanzialmente scomparsa, almeno nell'elettorato), ci sia indifferenza in merito a tali critiche. Affermano: "Che il mondo dica quello che vuole, abbiamo ciò di cui il mondo ha bisogno, siamo forti e possiamo sostanzialmente ignorarlo". Io dico, no, non potete ignorarlo. Perché anche se Jeremy Corbyn non è diventato premier e Bernie Sanders non è diventato presidente, la visione che condividono è potente e potrebbe benissimo diventare una politica di governo. Israele è in pericolo per questo. Non è ancora successo, ma ciò non significa che può esserne incurante.
Cosa interessa a Corbyn e Sanders? Soltanto una cosa: le condizioni dei residenti a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Tale questione va affrontata e ciò che offro è un modo per farlo. Se si riesce a convincere quei residenti del fatto che hanno perso, allora la pressione internazionale diminuirà.
Pensa che l'odio per gli ebrei o l'odio per se stessi abbia un ruolo in questa pressione internazionale, che si è trasformata nel definire Israele uno Stato di "apartheid"?
Di certo, c'è un elemento di odio per gli ebrei, non lo nego. Ma a differenza dell'ostilità musulmana verso Israele, che tende a riguardare l'esistenza stessa dello Stato, l'ostilità della Sinistra tende a riguardare il modo in cui gli israeliani trattano i palestinesi. La maggior parte dell'odio tossico nutrito dai non musulmani nei confronti di Israele consiste nel non volere la scomparsa di Israele e Sanders non la vuole. C'è indignazione per la condizione dei palestinesi.
Ad esempio, Gaza non è più sotto il controllo israeliano dal 2005, ma è ancora descritta come una prigione a cielo aperto di Israele. Non nascondo la mia perplessità. E inoltre c'è un andirivieni di merci tra Gaza e Israele, e non dovrebbe essere così. Israele non ha alcun obbligo di garantire il commercio o qualsiasi altra cosa a Gaza. L'antisemitismo ha a che fare con questo, ma penso che anche l'imperialismo antioccidentale sia rilevante.
Il termine "apartheid" non è casuale. Era utilizzato dai discendenti olandesi in Sudafrica. Gli israeliani sono considerati europei, non importa che molti non lo siano. Le Nazioni Unite giustificano l'apartheid come decolonizzazione. C'è la sensazione che Israele sia l'ultimo baluardo del colonialismo europeo e che debba essere distrutto o trasformato come il Sudafrica. Per avere una piena integrazione palestinese, occorre eliminare l'Ebraismo, la Legge del Ritorno e l'ebraico.
Per contrastare ciò, Israel Victory cerca di convincere i palestinesi del fatto che hanno perso. Non soltanto in termini di violenza, ma non meno importante è la delegittimazione che avviene nei campus universitari, nelle organizzazioni internazionale e altrove.
Quanto è realistico Israel Victory se gran parte del mondo sostiene i palestinesi e gli Stati Uniti continuano a promuovere la soluzione dei due Stati?
Non si tratta di un sostegno ai palestinesi in quanto tale, ma di offrire loro benefici in anticipo e sperare che ciò porti a cose buone. Non direi che la soluzione dei due Stati, alla quale sono favorevole, sia una pessima idea. Sono a favore, nel senso che alla fine, quando i palestinesi accetteranno Israele, allora sì che potranno avere uno Stato.
Quali azioni concrete Lei consiglierebbe per far rispettare questo obiettivo?
Ce ne sono parecchie, ma preferisco non parlarne perché non sono un israeliano, né sono un colonnello e non credo sia utile entrare nei dettagli. Voglio definire l'obiettivo della vittoria, l'obiettivo di costringere i palestinesi ad accettare la presenza permanente di Israele.
Detto questo, lasci che le faccia un esempio. Israele dovrebbe dire al governo di Gaza – ad Hamas – che un solo attacco missilistico lanciato da lì implica una giornata senza acqua, cibo, farmaci o carburante. Il lancio di due missili implicherà due giorni e così via. Credo che ci sarà molta rabbia nei confronti di Israele per questo, ma le azioni saranno efficaci e non richiederanno l'impiego della forza militare. Conviene criticare per convincere i palestinesi del fatto che hanno perso.
Se questo, di fatto, acuirebbe i contrasti sulla scena mondiale riguardo a Israele – cosa a cui, a Suo dire, Israele deve prestare attenzione – Lei ritiene che a lungo termine sarà efficace e quindi utile?
Esattamente. C'è attrito fra questi due punti. Ha colto bene questo aspetto. L'ambiente internazionale è molto importante a lungo termine, ma a breve termine, sì è vero, si corre il rischio che i contrasti si acuiscano. Non occorre preoccuparsi ogni istante dell'opinione internazionale; ma a lungo termine, ritengo che la prospettiva di Sanders o, peggio ancora, di leader in stile Corbyn sia reale e debba essere affrontata.
Corbyn (a sinistra) e Sanders. |
A suo avviso, il governo Netanyahu procede nella giusta direzione con le sue misure punitive contro l'Autorità Palestinese (AP) per aver chiesto alle Nazioni Unite di trascinare Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia in un tentativo di delegittimazione?
Sono rimasto colpito dalle varie misure, in particolare, la revoca dei privilegi ai cosiddetti ministri dell'AP, la sottrazione dei fondi e del fatto che il deputato [della Knesset] Smotrich abbia affermato che non gli importa se l'Autorità Palestinese esiste o meno. Tendenzialmente, questo approccio mi piace, ma deve essere inserito nel contesto dell'obiettivo più ampio. Si tratta solo di politiche frammentarie. Dal 1948 al 1993 c'era un obiettivo di appeasement e di ritiro unilaterale. Ora non è più così.
Ma c'è una lunga storia di indottrinamento anti-israeliano tra i palestinesi che è molto difficile da sradicare. Come si cambia una mentalità del genere?
In parte, attraverso misure economiche, spiegandolo, creando problemi ad Hamas e all'Autorità Palestinese. Israele ha un potere incredibile e dispone di tutta una serie di misure. Deve farlo in modo intelligente, con cura e strategicamente.
Anziché offrire incentivi economici come il piano di pace di Trump, Lei suggerisce di fare il contrario: misure economiche punitive?
Sì. Guardi cosa è accaduto l'anno scorso con la Russia. Putin ha fatto qualcosa di orribile. Guardi come ha reagito il mondo. Non gli ha offerto nuovi contratti e denaro. Ha interrotto le relazioni economiche. Tornando indietro di un secolo, i sionisti laburisti hanno cercato di conquistare i palestinesi con benefici economici, acqua pulita, elettricità e cibo in abbondanza, e hanno pensato che si sarebbero riconciliati con la loro presenza. Non ha funzionato. Non ha funzionato a Oslo né con il piano Trump. Ma l'idea persiste. Tutti dicono di premiare i palestinesi. Io sostengo di no. Non bisogna dare loro nulla, occorre fargli subire la sconfitta, fargli provare il dolore.
Quindi, una volta che hanno ammesso la sconfitta, si potranno raggiungere accordi e concedere benefici in stile Oslo. È del tutto illogico arrecare benefici al proprio nemico, mentre si è in guerra con lui. Questa è un'idea prettamente israeliana. Il Piano Marshall fu messo in atto dopo la sconfitta dell'Asse. Dobbiamo fargli pagare un prezzo per aver continuato a voler eliminare lo Stato ebraico.