Il seguente articolo è la trascrizione di un dibattito con Patrick Seale, Uri Lubrani e Raghida Dergham. Per visionare l'intero dibattito cliccare qui.
Qualsiasi regime, qualsiasi governo, guarda innanzitutto alle proprie questioni interne e la sua politica estera riflette i propri problemi interni. E quindi, per capire la politica estera siriana, occorre comprendere la politica interna siriana. E il fatto fondamentale della vita politica siriana è che, dal 1966, il governo è guidato da una piccola e disprezzata minoranza chiamata alawita. È una religione post-islamica, con una storia intricata e interessante; qualcosa come un ottavo della popolazione siriana che vive nell'estremo nord-est del Paese, storicamente disprezzata.
Per una serie di ragioni, nel 1966 si verificò uno straordinario sviluppo per cui gli alawiti assunsero la direzione del governo della Siria. I primi anni sono stati un po' instabili. Hafiz al-Asad prese il posto di altri alawiti nel 1970 ed è lì da trent'anni.
Mantenere il comando e governare gli alawiti in Siria è la principale preoccupazione di Hafiz al-Asad, il quale teme che se lui, la sua tribù, la sua famiglia e la sua gente – e per gente si intendono gli alawiti – perdessero il potere, ci sarebbero delle terribili conseguenze. Non sarà solo come Ceaușescu, ma sarà tutta la popolazione a soffrire. E quindi, la priorità assoluta è il mantenimento del regime, la permanenza al potere. E tutto ciò che fa il regime è visto attraverso questo prisma.
Da questo punto di vista si può comprendere la politica estera e la politica interna. E in particolare, guardando alle relazioni con Israele, direi che il regime di Asad nel 1991 capì come stavano le cose, vide la vittoria americana sull'Iraq, scorse l'imminente crollo dell'Unione Sovietica e disse: "Beh, è giunto il momento di apportare alcune modifiche alla nostra politica. Iniziamo un percorso negoziale con gli israeliani. Dobbiamo farlo per mitigare le potenze occidentali". Damasco lo fece, ed è stato un cambiamento sostanziale nella politica.
In effetti, all'epoca ero abbastanza ottimista sul fatto che questo potesse portare ad altre cose. Ma è diventato subito chiaro che i siriani stavano usando il processo di pace come fine a se stesso, come un modo per ingraziarsi l'Occidente, per dire: "Guardate, stiamo facendo del nostro meglio". Eppure, non avevano alcuna intenzione, e non l'avevano mai avuta, di raggiungere un accordo. Pertanto, la mia sintesi aforistica di questo è: "Processo di pace, e non pace".
Ormai, quei negoziati vanno avanti da otto anni e mezzo. Nulla è stato ottenuto. Oh, sì, ci sono tutti i tipi di accordi teorici che sono stati raggiunti, ma non è stato conseguito nulla: otto anni e mezzo solo di chiacchiere. E se guardate più attentamente, quello che vedete è che, quando c'è un accordo, i siriani hanno davvero avanzato una nuova richiesta. C'era un grande senso di eccitazione nel giugno del 1996 per la svolta, e improvvisamente i siriani decisero che gli israeliani dovevano, in anticipo, rinunciare a una stazione di preallerta sulle alture del Golan.
Nella prima parte di quest'anno, abbiamo visto gli israeliani fare questa straordinaria concessione di consegnare le alture del Golan. E, chi l'avrebbe detto, all'improvviso entra in gioco il Kinneret. Sono pienamente fiducioso che se gli israeliani cederanno sul Kinneret, chissà quale sarà la prossima richiesta? Un miglio quadrato a Haifa? Non so. Ma non c'è da accontentare il governo damasceno.
In breve, Hafiz al-Asad è un uomo che non accetta un sì come risposta. Non vuole il "sì," perché, per tornare al punto iniziale, un trattato con Israele, un trattato di pace, un trattato di pace firmato con Israele, è qualcosa di molto più grande di un accordo tecnico con un Paese vicino. È un nuovo orientamento del regime siriano che lo sta spostando fuori dal campo canaglia per dirigerlo verso l'Occidente.
Mi piace fare il paragone con la decisione di Anwar Sadat di cacciare i consiglieri militari sovietici dall'Egitto nel 1972. Non fu una decisione militare, una decisione tecnica che aveva a che fare con i militari. Quello fu un ri-orientamento del suo regime da est a ovest. E così, per la popolazione siriana, un trattato di pace con Israele rappresenterebbe un cambiamento, un cambiamento fondamentale. E tale cambiamento significherebbe: "Sì, stiamo lavorando. Ora abbiamo la partecipazione politica. Ora abbiamo investimenti esteri. Ora ci sono gruppi per i diritti umani che monitoreranno. Ora questa è una società più aperta".
Credo che Asad, il cui occhio è sempre puntato sul mantenimento del regime, guardi a questa possibilità con orrore. Questo è l'uomo che per trent'anni ha governato con notevole successo, con una presa totalitaria, un Paese. La prospettiva di questo tipo di apertura, che non sa come affrontare, lo spaventa a morte.
Quindi, no, non ha intenzione di farlo. Comunque, sì, deve continuare i negoziati. Pertanto, le trattative sono uno show. Non sono mai state serie, e non lo saranno mai finché Hafiz al-Asad sarà al potere. Non ho idea di cosa seguirà, ma finché lui è al potere, non c'è alcuna possibilità che vadano da nessuna parte.