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Approcci
La "schiavitù militare" si riferisce all'uso sistematico degli schiavi come soldati. Non include tutti gli schiavi che combattono in guerra, ma soltanto quelli acquisiti e formati in un ambito organizzato e poi impiegati professionalmente come soldati. In contrapposizione a questi schiavi-soldato, io chiamo "schiavi ordinari" coloro che normalmente sono impegnati in altre attività e combattono solo a causa di circostanze specifiche.
Gli schiavi ordinari combatterono in guerre scoppiate in ogni parte del mondo, aiutando i loro padroni a vario titolo offrendo loro sostegno, aiuti di emergenza o svolgendo funzioni ausiliarie. Fornirono assistenza occasionale, senza mai svolgere un ruolo militare decisivo. Non erano il pilastro di nessun esercito. In definitiva, gli schiavi ordinari che combattevano in guerra erano soltanto un fenomeno minore [1].
Gli schiavi-soldato, al contrario, ebbero un'importanza reale. Come soldati professionisti ben addestrati, essi servirono i loro padroni nel corso degli anni, furono i pilastri di numerosi eserciti ed ebbero spesso un ruolo militare decisivo. Inoltre, in virtù della loro importanza militare, acquisirono una base di potere che consentì loro, occasionalmente, di esercitare un ruolo politico indipendente. Talvolta questi schiavi finirono persino per assumere il comando e vedere uno di loro diventare governante [2].
Il tentativo di spiegare la logica alla base della schiavitù militare deve tener conto della sua distribuzione. La schiavitù militare non si è sviluppata ovunque nel mondo, ma, a quanto pare, solo nei Paesi musulmani. Soltanto i governanti musulmani reclutarono sistematicamente i loro soldati attraverso la riduzione in schiavitù. Non solo questo, ma i musulmani fecero un uso molto massiccio di tali schiavi, poiché erano presenti in quasi tutte le dinastie musulmane tra il IX e il XIX secolo, tra la Spagna e il Bengala, l'Asia centrale e l'Africa centrale. Un attento esame di quasi tutte le dinastie musulmane prima del 1850 rivela la presenza di innumerevoli schiavi nell'esercito e molti di loro occupavano posizioni di potere e di prestigio. Sebbene non ovunque (non ad est del Bengala) né in ogni momento (non nel VII, VIII o XX secolo), la schiavitù militare fu così spesso frequente negli eserciti musulmani da poter essere considerata il loro tratto più peculiare.
La presenza massiccia della schiavitù militare nei Paesi musulmani e la sua assenza altrove potrebbe indicare che la sua logica di base deve essere collegata alla cultura islamica. In quale altro modo si può spiegare l'esistenza di un'unica istituzione (con variazioni ammesse) in così tante dinastie musulmane, indipendentemente dalle condizioni politiche, geografiche, economiche o sociali? L'Islam è l'unico punto in comune di queste numerose dinastie, da qui l'ipotesi che la logica di base della schiavitù militare possa essere trovata unicamente nella cultura islamica. Qualcosa nella cultura islamica favorisce la comparsa della schiavitù militare. Di che si tratta?
Possibili legami con l'Islam
La connessione della schiavitù militare con la cultura islamica potrebbe essere legata alla religione o alla civiltà islamica. Perché anche se l'Islam è alla base una religione, è anche di più: un sistema giuridico e uno stile di vita. Come l'Ebraismo e a differenza del Cristianesimo, l'Islam include una legge sacra che regola in dettaglio le attività dei credenti. Questa legge riguarda tutti gli ambiti dell'esistenza, a cominciare da quando, prima del sorgere del sole, il musulmano si alza per la prima preghiera fino a quando si reca a dormire assumendo una posizione approvata da tale legge.
Naturalmente, poche comunità musulmane rispettano rigorosamente tutte le leggi, eppure le leggi rimangono importanti anche quando non vengono osservate. Rappresentano un ideale ed esercitano un'attrazione simile su comunità diverse. La rete di relazioni, atteggiamenti e modelli che ne consegue costituisce questa civiltà distinta e unica che è l'Islam. Non deriva direttamente né dalla religione né dalla legge sacra, ma esiste grazie a loro.
Tornando al punto in discussione, la schiavitù militare è connessa alla religione o alla civiltà islamica? Nel primo caso, ciò implicherebbe che la schiavitù militare faccia parte del sistema religioso-giuridico islamico, un tratto tipico e non funzionale della religione, paragonabile alla presenza di confraternite (mistiche) sufi o all'uso del turbante. Questo, tuttavia, non può essere il nesso principale, poiché la schiavitù militare non incorre in alcuna sanzione religiosa o legale, non soddisfa alcuna esigenza dottrinale e non è nemmeno esplicitamente legale. Non è legata alla religione islamica come parte di un insieme islamico.
Pertanto, la schiavitù militare deve essere in qualche modo collegata alla civiltà islamica in generale. Quale aspetto della civiltà islamica potrebbe creare questa istituzione? Quasi tutti i tentativi di risposta arrivano alla stessa conclusione: la necessità di avere agenti. Sia i sociologi sia gli storici dell'Islam sottolineano questa spiegazione.
Montesquieu sembra essere stato il primo scrittore a riflettere sull'armamento degli schiavi [4], ma HJ Nieboer potrebbe essere stato il primo a spiegare il fenomeno. Nella sua opera comparativa sulla schiavitù primitiva pubblicata nel 1900, Nieboer dichiara che "i proprietari di numerosi schiavi, che formano l'aristocrazia, saranno spesso inclini a fare affidamento sui loro schiavi per il mantenimento del loro potere sull'uomo libero comune" [5]. Il punto di vista di Nieboer riflette la prima influenza dell'analisi marxista alla fine del XIX secolo. Lo studioso ritiene che i soldati di origine servile siano una conseguenza di un conflitto di classe in cui gli schiavi sono uno strumento politico per offrire sostegno all'aristocrazia contro le masse.
Max Weber considera gli eserciti di schiavi nel contesto del potere patrimoniale e spiega il loro sviluppo attraverso il vantaggio politico che essi offrono. Proprio come un governante patrimoniale preferisce reclutare amministratori tra il suo personale domestico, perché sono molto leali, così troverà le truppe più devote nella sua stessa casa [6]. Gli schiavi fungono principalmente da agenti della volontà del governante.
S. Andreski spiega la schiavitù militare in riferimento ai titolari di cariche rimossi. Tra gli altri Paesi, quelli di cultura islamica hanno sperimentato
una violenta lotta [che] andò avanti incessantemente tra i governanti e i notabili. Nella lotta mortale condotta contro i notabili, i governanti impiegavano spesso schiavi e mercenari reclutati dagli strati più bassi. Queste truppe si ribellarono frequentemente e, in alcune occasioni, deposero i governanti, decimarono e depredarono la nobiltà e presero il loro posto [7].
Andreski pone inoltre l'accento sul fatto che gli schiavi-soldato servono il sovrano come agenti nelle sue relazioni politiche interne.
Come i sociologi, anche gli storici dei Paesi musulmani trovano una motivazione politica. A. G. B. e H. J. Fisher enfatizzano la schiavitù militare come un mezzo per aumentare la centralizzazione anche per arrivare al dispotismo [8], mentre Papoulia la considera una forza per opporsi alla decentralizzazione [9]. Vryonis evidenzia la natura "multisettaria, poliglotta e multirazziale" delle principali dinastie musulmane e interpreta la schiavitù militare come un metodo per far fronte a questa situazione [10]. Sadeque osserva che la frattura geografica e settaria delle entità politiche del mondo islamico indebolisce i governi e spiega la necessità avere di soldati schiavi [11]. Meyers sottolinea allo stesso modo il fatto che "i conquistatori musulmani erano normalmente dei piccoli gruppi internamente segmentati" [12]. A. Lewis attribuisce il fenomeno allo "individualismo anarchico degli schemi sociali e particolarmente politici" della vita musulmana [13]. Hrbek fa eco alla spiegazione di Nieboer scrivendo che la comparsa della schiavitù militare deriva principalmente "dal fatto che i governanti non potevano fidarsi dei propri sudditi e non potevano costruire un esercito tra i loro ranghi" [14].
Tutte queste spiegazioni della schiavitù militare, argomentate più chiaramente da Andreski, implicano che essa necessita di un sovrano che introduca elementi umili nel governo. Attraverso la riduzione in schiavitù, il leader musulmano si lega a uomini dello strato più umile della società che diventano suoi agenti fidati nelle lotte da lui condotte contro i rivali interni. Di fronte all'incessante opposizione interna, il sovrano arruola schiavi la cui totale devozione lo aiuta a fare fronte a tutte le sfide. La schiavitù militare è una manovra politica per acquisire agenti contro i rivali interni.
A mio avviso, la possibilità di utilizzare gli schiavi-soldato come agenti accresceva il loro valore, ma non ne costituiva la ragion d'essere poiché gli agenti servivano a scopi politici e gli schiavi-soldato erano principalmente soldati. Pur avendo spesso anche funzioni non militari, questi schiavi venivano acquisiti, addestrati e impiegati sulla base delle loro capacità di combattimento. Le altre funzioni derivavano esclusivamente dai loro successi sul campo di battaglia. Pertanto, sebbene gli schiavi-soldato servissero bene il loro padrone come agenti, la loro ragion d'essere stava altrove, nei vantaggi che gli offrivano come soldati. E quali erano tali vantaggi?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo guardare alle esigenze peculiari degli eserciti musulmani, che dipendevano esclusivamente dagli schiavi-soldato. Avevano esigenze non presenti in altri eserciti? In che modo questi ultimi avrebbero potuto dar luogo alla schiavitù militare?
Io ritengo che gli eserciti musulmani avessero esigenze specifiche che la schiavitù militare è riuscita in qualche modo a soddisfare. In sintesi, i sudditi dei governanti musulmani raramente erano disposti a combattere per lui, quindi il governante doveva trovare soldati al di fuori dei suoi domini. La schiavitù militare giovava al sovrano sia come meccanismo per acquisire soldati stranieri sia come metodo per legarli a se stesso.
I soldati stranieri dominavano gli eserciti musulmani
Dalla nascita dell'Islam fino all'inizio del XIX secolo, dal Bengala alla Spagna, quasi tutti i soldati che sostenevano un governo centrale musulmano erano estranei alla dinastia regnante [15]. Questi soldati stranieri furono i fondatori di quasi tutte le dinastie musulmane e fornirono personale ai loro eserciti. La forte dipendenza dei musulmani dai soldati provenienti da regioni lontane era una delle caratteristiche più basilari e importanti della storia islamica. Nessun altro esercito, nemmeno quelli che esistevano nelle stesse regioni prima che esse passassero sotto il controllo musulmano, dipendeva così fortemente da questo tipo di soldati.
Non è questa la sede per documentare un aspetto così importante della vita islamica; basterà un esempio per chiarire questo punto: il caso dell'Egitto. In epoca preislamica, i soldati egiziani della Valle del Nilo costituivano il pilastro degli eserciti imperiali egiziani, soprattutto nel periodo faraonico, ma anche nell'esercito greco-romano. Il loro ruolo terminò bruscamente con la conquista araba dell'Egitto nel 642. Da allora fino al XIX secolo, i soldati che sostenevano il governo egiziano vennero reclutati fuori dall'Egitto. Ogni nuova dinastia salì al potere con soldati che non erano egiziani: Omayyadi, Abbasidi, Tulunidi, Ikhshididi, Fatimidi, Ayyubidi, Mamelucchi, Ottomani e la dinastia Muhammad 'Ali. Dopo la fondazione di una dinastia, quest'ultima continuava a fare affidamento anche sullo stesso tipo di soldato, ricorrendo ben poco all'appoggio degli egiziani. Lo stesso modello può essere osservato anche in molte altre regioni islamiche, tra cui Marocco, Tunisia, Yemen, Siria, Iraq, Anatolia, Iran occidentale e orientale, Asia centrale e India settentrionale [16].
Il ruolo straordinario dei soldati stranieri nei Paesi musulmani spiega molti dei tratti più caratteristici della vita militare, politica e sociale musulmana, e la schiavitù militare è solo uno di questi tratti. La dipendenza da soldati esterni comportava esigenze specifiche che lo sviluppo della schiavitù militare arrivò a colmare. Questo paragrafo esamina i motivi per cui i soldati stranieri hanno dominato gli eserciti musulmani e le esigenze poste da questa situazione.
La rinuncia al potere da parte delle popolazioni musulmane
I governanti musulmani impiegavano soldati al di fuori dei loro territori perché la popolazione autoctona aveva rinunciato al suo potere militare e politico. Questo sviluppo sorprendente è avvenuto a causa di due tratti distintivi della vita politica islamica, vale a dire il disinteresse per (1) l'identificazione territoriale e per (2) le relazioni militari tra musulmani [17].
(1) La civiltà islamica scoraggia una forte identificazione con una regione geografica. I musulmani hanno pochi santi locali, regioni ben definite o dinastie legate da origini e da un attaccamento a un luogo particolare. Originari dello Yemen, i Fatimidi giunsero in seguito in Tunisia, in Egitto e si spinsero fino ai confini dell'Iraq, ma ciò che contava era la loro identità musulmana. In epoca moderna, solo uno Stato musulmano, il Pakistan, è diviso in due parti, separate da mille miglia. Quando il grande viaggiatore marocchino Ibn Battuta (morto nel 1356) sbarcò alle Maldive, non ne conosceva la lingua né la cultura, eppure riuscì presto a trovare impiego come cadi (giudice) [18]. L'elemento islamico aveva una tale importanza da potersi rivelare utile in un ambiente straniero.
I viaggi di Ibn Battuta. |
Si può attribuire questa fluidità geografica all'accento posto dall'Islam sulla famiglia e sull'umma (la comunità dei musulmani) piuttosto che sul luogo. Nel mondo islamico, la maggior parte dei legami di appartenenza erano rivolti alle immediate vicinanze o all'universale. Il senso di appartenenza a livello intermedio (la regione o la città) era decisamente meno incoraggiato. Sul piano politico, questo induce a dare maggior rilievo al leader dell'umma, il califfo, a scapito dei governanti locali e territoriali. Sebbene l'attaccamento al territorio non sia mai stato del tutto assente, era in genere meno importante della parentela o dell'appartenenza all'Islam.
I concetti intermedi fra tribale e islamico erano vaghi e di dubbio significato sociale. Tali appartenenze che di volta in volta si sono cristallizzate nella zona intermedia tra il tetto tribale da un lato e le rivendicazioni universalistiche dell'Islam dall'altro, erano effimere e non erano ben espresse né in termini etnici né territoriali [19].
Non importa quanto fosse frammentata la situazione reale, i musulmani hanno sempre considerato l'unità politica come un ideale. Di conseguenza, i governanti locali erano più o meno visti come usurpatori, poiché dividevano l'umma e inducevano i musulmani a scontrarsi a vicenda. I musulmani desideravano l'unità e negavano ai governanti territoriali il pieno rispetto o la fedeltà. Questo sentimento era simboleggiato dalla pratica di investire la sovranità in un califfo indifeso che viveva a migliaia di chilometri di distanza. I governanti territoriali rispondevano al pregiudizio contro di loro avanzando rivendicazioni universalistiche:
Per un sovrano musulmano, l'unica definizione accettabile dell'estensione della sua sovranità era l'Islam stesso. (...) Una designazione territoriale o etnica era dispregiativa e veniva applicata a un rivale per mostrare la natura limitata e locale del suo governo [20].
I titoli adottati dai governanti musulmani riflettevano questo spirito, poiché "normalmente non includevano alcuna menzione del territorio o delle persone su cui il sovrano rivendica l'autorità" [21].
La denigrazione dei governanti locali e territoriali ebbe chiare conseguenze politiche perché impediva loro di fare affidamento sui propri sudditi per ottenere la lealtà. I governi musulmani premoderni tendevano a non sviluppare forti radici locali, ma rimasero dinastie di individui potenti e isolati che facevano affidamento sul sostegno di estranei. I loro sudditi avevano poco attaccamento ai loro governanti e dirigevano la loro lealtà verso l'ambiente circostante (famiglia, tribù, villaggio) o verso l'intera comunità dei musulmani. La riluttanza di gran parte della popolazione locale costrinse i governanti a trovare il loro sostegno altrove, dagli stranieri.
(2) L'Islam scoraggia la partecipazione alle lotte tra musulmani. Accentuando la dicotomia tra musulmani e non musulmani, si riduce il ruolo della popolazione locale quando non sono coinvolti non musulmani. All'Islam importa poco chi comanda, purché sia musulmano. Pertanto, i musulmani vengono coinvolti solo quando i non musulmani sono una minaccia. Hanno mostrato un improvviso interesse per il jihad, in netto contrasto con la loro solita indifferenza per la politica e la guerra. Quando gli infedeli erano una minaccia lontana ed era al potere un governo basato sul Corano e sulla Sunna, il popolo si limitava a occuparsi del proprio orticello, così facendo rinunciava volontariamente al proprio ruolo militare e politico, e ciò portava al dominio straniero. I musulmani in genere erano meno impegnati nella politica rispetto ad altri popoli. Paradossalmente, abbracciando la politica, l'Islam l'ha rimossa dalla vita della maggior parte dei musulmani.
Combinando gli aspetti (1) e (2), rileviamo che i popoli musulmani nella maggior parte dei casi non mostravano quasi alcun interesse a partecipare al proprio esercito o al governo. Consideravano i propri governanti transitori, non del tutto legittimi e pertanto ne restavano alla larga. La loro passività e disaffezione politica non li spingevano a offrire un forte sostegno; la loro accettazione passiva dell'ordine politico creava un enorme divario tra governanti e governati che, nel normale corso degli eventi, venne raramente colmato. Dopo il 205/820, i governanti territoriali rappresentavano quasi tutti i governanti musulmani, ma non potendo fare affidamento sui loro sudditi per il sostegno cercarono aiuto al di fuori della maggior parte della popolazione.
Cercando costantemente i soldati al di fuori dei loro territori, i governanti musulmani svilupparono un'esigenza unica, che mancava ai governanti non musulmani. Fu questa necessità di reclutare soldati stranieri che diede origine alla schiavitù militare. Nella ricerca di soldati provenienti da altrove, il governante musulmano aveva bisogno di un afflusso costante di reclute e di un modo per legarle a sé. La schiavitù militare soddisfaceva questi due bisogni.
I vantaggi della schiavitù militare
L'acquisizione più facile e la maggiore lealtà degli schiavi-soldato spiccano con particolare evidenza rispetto ad altri metodi di reclutamento di soldati stranieri, siano essi uomini liberi, mercenari o alleati.
Acquisizione di soldati stranieri
Un governo riusciva a procurarsi con maggiore facilità gli schiavi rispetto ai mercenari o agli alleati. Poteva comprare, catturare o rubare uno schiavo, ma non un uomo libero. Uno schiavo poteva essere costretto ad arruolarsi nell'esercito, ma non gli altri: i mercenari dovevano essere indotti a farlo e gli alleati dovevano trovarlo vantaggioso. Lo schiavo era soggetto a mezzi di persuasione più attivi e flessibili. Reclutandolo attraverso la riduzione in schiavitù, il governante si affrancava dall'obbligo di attendere l'arrivo di soldati collaborativi [22,] situazione comune dei governi che non schiavizzavano i loro soldati (ad esempio Bisanzio e la Cina). A differenza dei mercenari o degli alleati che accettavano di combattere solo in un numero limitato di casi, gli schiavi arrivavano non appena le circostanze lo consentivano: alcuni erano acquisiti come tributo, altri come merce, bottino, come frutto di furto o di contrabbando.
Gli schiavi-soldato venivano solitamente procurati da bambini, il che ne facilitava anche l'acquisizione. Mentre mercenari e alleati potevano essere trovati solo tra i popoli amici, i bambini potevano essere rapiti o catturati in guerra nel campo nemico e, attraverso l'addestramento, venivano trasformati in soldati fedeli. Il pool di potenziali schiavi potrebbe essere molte volte più grande di quello degli uomini liberi reclutati.
La riduzione in schiavitù dava accesso a un'ampia varietà di nazionalità e forniva all'esercito un'utile diversità di truppe, poiché spesso i soldati schiavi portavano con sé le abilità speciali dei propri popoli [23]. Questa molteplicità di origini e abilità etniche contribuì direttamente alla flessibilità e al potere tattico degli eserciti musulmani. Sebbene anche mercenari e alleati potessero provenire da molti popoli, i governanti avevano molto meno controllo su di essi.
Inoltre, riducendo in schiavitù le sue reclute, il sovrano musulmano poteva scegliere i propri soldati individualmente. Mentre mercenari e alleati arrivavano in corpi o tribù e combattevano in gruppo, gli schiavi arrivavano da soli. Il governo poteva operare un'attenta selezione tra i suoi schiavi, che non era possibile con i soldati liberi provenienti dalle zone di confine. Questa selettività consentiva uno standard di qualità più elevato per ogni soldato presente in seno agli eserciti di schiavi.
Insieme a questi vantaggi, l'acquisizione di schiavi-soldato comportava altresì alcuni problemi particolari. Quando una dinastia vedeva decadere il proprio potere, non poteva più acquisire i suoi schiavi a buon mercato (mediante incursioni, guerre e così via) e doveva acquistarli. Tuttavia, man mano che la dinastia si indeboliva, le sue risorse diminuivano al punto che tale spesa diveniva sempre più gravosa. I Mamelucchi d'Egitto non potevano ridurre la loro dipendenza dalle nuove reclute né acquisirle a buon mercato, pertanto, il prezzo pagato per l'acquisto degli schiavi contribuì in modo significativo al declino economico del Paese [24].
Anche la distanza che in genere gli schiavi percorrevano dal loro Paese d'origine al Paese in cui avrebbero servito e la fragilità dei canali di approvvigionamento potevano causare dei problemi [25]. Poiché gli schiavi di solito provenivano da regioni remote, le forze nemiche riuscivano facilmente a interrompere l'accesso a tali regioni. La dipendenza degli Abbasidi dai Tahiridi per inviare loro bambini schiavi indebolì il potere degli Abbasidi nell'Iran settentrionale e rafforzò quello dei Tahiridi.
I costi e la distanza percorsa dagli schiavi-soldato presentavano due inconvenienti peculiari degli schiavi-soldato, ma solo nelle fasi di declino: tali problemi non erano previsti quando un sovrano creò un corpo di schiavi-soldato nella seconda generazione circa della dinastia.
Controllo dei soldati venuti dall'estero
I soldati neo-reclutati erano stranieri e non professionisti, privi di alcun legame con il potere dominante e con la popolazione.
In che modo il loro padrone poteva legarli a sé e alla sua dinastia? Come mercenari o alleati, mantenevano la propria lealtà, ma come schiavi potevano essere soggetti a un ri-orientamento. Prima di arruolarsi nell'esercito, erano preparati per il servizio;. Il governo si assicurava la loro lealtà e adattava le loro competenze militari alle esigenze dell'esercito.
(1) Lealtà. I mercenari e gli alleati imposero la loro lealtà volubile al governante. Potevano sempre disertare e minacciavano costantemente l'ammutinamento. "Un alleato era sempre una potenziale minaccia all'indipendenza" [26] e un mercenario lo era ancora di più. Poiché queste truppe costituivano spesso la forza più potente del regno, poco poteva impedire loro di diventare un elemento ingestibile e distruttivo, indifferente a una fedeltà che sbarrava la strada al bottino. Se insoddisfatti del bottino della guerra, attaccavano prontamente il loro datore di lavoro o alleato.
La schiavitù militare rappresentava un prezioso aiuto per controllare i soldati stranieri. A differenza dei mercenari e degli alleati, si poteva costringerli a subire cambiamenti di identità effettuati mediante processi complementari di sradicamento, isolamento e indottrinamento. Lo sradicamento esponeva gli schiavi alla solitudine e a nuove relazioni. L'isolamento aumentava la loro suscettibilità e l'indottrinamento trasformava le loro personalità.
Contrariamente ai mercenari e agli alleati, i quali di solito arrivavano in unità tribali alle quali rimanevano attaccati e mantenevano la loro lealtà tradizionale, gli schiavi erano lì come individui e dovevano creare nuovi legami. Privati della propria gente, questi soldati dovettero accettare le nuove affiliazioni offerte loro. Il corpo degli schiavi-soldato si sviluppò in una tribù sostitutiva e in molti casi sostituì il vero gruppo di parenti. L'adozione della nisba (nome di parentela) di un padrone rifletteva la necessità di una nuova, anche se fittizia, filiazione [27].
Inoltre, il padrone isolava i propri schiavi. Li conduceva dal loro Paese d'origine in uno straniero e li tagliava fuori dal resto della società. Gli schiavi non avevano altra scelta se non quella di accettare i legami di appartenenza che venivano loro offerti e di essere fedeli. Sviluppavano degli stretti legami con i loro compagni, i quali condividevano tutti la stessa situazione. L'isolamento geografico riduceva anche la possibilità per un soldato di una zona di confine di dover combattere la sua stessa gente allontanandolo da loro. Il combattimento contro i connazionali metteva a dura prova anche la lealtà di uno schiavo-soldato, sebbene si possano trovare numerosi esempi della sua lealtà in tali situazioni [28].
Infine, la schiavitù militare consentiva l'indottrinamento. Se i mercenari e gli alleati arrivavano da adulti e si opponevano ai cambiamenti di personalità e ai legami di fedeltà, gli schiavi-soldato arrivavano da bambini, non ancora formati e suscettibili a un nuovo orientamento. Anni di insegnamento scrupoloso li permearono di un attaccamento permanente alla religione islamica, al loro padrone e alla sua dinastia, e ai loro compagni d'armi. Il padrone esercitava una pressione costante sulle reclute schiave affinché abbandonassero le loro precedenti alleanze e si attaccassero a lui. La schiavitù consentiva un lungo periodo di gestazione che modificava la loro identità. Ibn Khaldun spiega:
"Quando una persona che nutre uno spirito di gruppo forma altre persone di altra origine o prende con sé schiavi e mawali (liberti), entra in stretto contatto con loro. (...) Questi mawali e queste persone formate condividono lo spirito di gruppo del loro padrone e se ne fanno carico come se fosse il loro [29].
(2) Formazione militare. Il processo di addestramento era il fulcro dell'intera istituzione della schiavitù militare. Forgiava il carattere di uno schiavo instillando abilità militari, disciplina e padronanza delle strutture di comando. Gli anni di addestramento segnavano lo schiavo-soldato e determinavano la sua futura carriera. Lo schiavo-soldato iniziava l'addestramento da ragazzo isolato per poi diventare un soldato altamente qualificato, disciplinato e connesso. Il mercenario o l'alleato, non obbligato a sottoporsi ad addestramento, di solito non aveva queste importanti qualità.
Gli schiavi-soldato venivano inizialmente addestrati alle arti marziali. Se mercenari e alleati mostravano insofferenza, gli schiavi, invece, imparavano nuovi metodi di combattimento [30]. Il loro stato servile e la giovinezza li costringevano ad accettare questi cambiamenti. I soldati stranieri spesso arrivavano nel sistema politico pieni di spirito indipendente e non avevano familiarità con le catene di comando, ma i governi non potevano tollerare tali qualità generatrici di caos, quindi costringevano gli schiavi a imparare la disciplina.
Grazie all'addestramento militare, il coraggio naturale e la robustezza di questi soldati si combinavano con l'organizzazione, le tecniche e la disciplina degli eserciti del sistema politico. Gli schiavi sembravano essere superbamente abili nelle arti marziali e del tutto integrati in un esercito organizzato. Lo svantaggio principale del programma di formazione risiedeva nella durata di tempo che necessitava. Mentre mercenari e alleati erano assolutamente preparati per la battaglia, gli schiavi-soldato dovevano essere acquisiti e addestrati molto prima che potessero essere schierati. Potevano essere utilizzati correttamente solo nel contesto della pianificazione a lungo termine [31].
(3) Nessun interesse conflittuale. Mercenari e alleati avevano sistematicamente altre preoccupazioni che esulavano dal servizio militare. Avevano famiglia, parenti, armenti, fattorie e così via, a cui dedicavano attenzione e da cui non volevano separarsi a lungo. Questi interessi richiedevano tempo ed erano in conflitto con il loro servizio al governante. Gli schiavi, al contrario, potevano essere costretti a vivere isolati dal resto della società. Non solo si poteva impedire loro di avere un reddito esterno, ma potevano anche essere celibi; di certo, il sovrano non poteva costringere nessuno, tranne il proprio schiavo, a non sposarsi. In cambio di ricevere tutte le loro entrate in salario dal governante, gli schiavi lo servivano tutto l'anno come esercito permanente.
(4) Acculturazione. Gli schiavi-soldato subirono maggiormente l'influenza culturale del sistema politico che servivano rispetto ai loro avversari liberi. Durante la formazione, apprendevano i costumi, la religione, la cultura e la lingua della dinastia; questo si rivelò di grande importanza, perché se non fossero fatti sentire parte della dinastia, potevano sempre ribellarsi ad essa. Gli schiavi-soldato non lo fecero mai perché entrarono a far parte della dinastia stessa. Facevano parte dell'élite dominante, e non erano i suoi lacchè. Quando si ribellarono, non attaccarono la politica in quanto tale, ma gli individui che ne erano a capo. In caso di successo, prendevano il governo dall'interno. Tuttavia, questa acculturazione non impedì loro di depredare la popolazione del sistema politico, un mezzo a cui fare ricorso come qualsiasi altro membro dell'élite dominante. L'acculturazione permise loro di far parte del governo, in modo tale da non poter attaccare la politica stessa, sebbene la popolazione fosse la loro eterna vittima.
(5) Agenti. Oltre a portare il potere militare alla dinastia nel suo insieme, gli schiavi-soldato fornirono al sovrano anche scagnozzi per promuovere le sue ambizioni politiche. Mentre servivano l'esercito contro i nemici esterni, sostenevano il sovrano contro i rivali interni. Sebbene complementari, queste due funzioni non erano identiche. Come agenti, erano totalmente in debito con il sovrano, devoti a lui e privi di ogni traccia di invidia. Impossibile trovare agenti migliori. Mercenari e alleati non fornivano in modo affidabile questo servizio personale.
Conclusione
Soltanto i musulmani fecero affidamento sui soldati stranieri delle zone di confine al punto che crearono un'istituzione in vista di acquisire e controllare queste truppe. La composizione esclusiva degli eserciti islamici spiega pertanto la schiavitù militare e per quale motivo esisteva soltanto nei Paesi musulmani. I leader islamici potevano scegliere di reclutare soldati stranieri in altri modi, ma l'impiego di altri metodi comportava maggiori difficoltà. Ad esempio, i Mogul avevano pochissimi schiavi-soldato; impiegavano invece indù dalle aree di confine dell'India e attiravano soldati dall'Iran e dall'Asia centrale offrendo loro stipendi particolarmente elevati [32]. Tuttavia, i Mogul avevano spesso problemi ad acquisire queste truppe e ad insegnare loro la lealtà. Vista la necessità dei musulmani di avere soldati stranieri, la schiavitù militare ha apportato numerosi vantaggi rispetto ad altri metodi di organizzazione; il numero, la qualità, e la giovinezza degli schiavi garantiva la loro eccellenza. Il loro isolamento, il loro addestramento e il loro indottrinamento assicuravano soldati ottimi e leali.
Rilevando i vantaggi degli schiavi-soldato non dovremmo considerare così sconcertante il loro ruolo militare nel millennio 820-1850. L'istituzione della schiavitù militare non fu frutto del caso, un legalismo né un colpo di fortuna, ma un proficuo adattamento alla specifica esigenza musulmana di acquisire e controllare soldati stranieri provenienti da zone frontaliere. Per quanto possa sembrare strano, la riduzione in schiavitù delle reclute apportò ai governanti musulmani reali benefici sul piano militare.
In definitiva, la peculiarità della schiavitù militare ha poco a che fare con l'impiego di schiavi come soldati e risiede, invece, nella logica culturale che anima questa istituzione. L'esistenza della schiavitù militare non ha quasi nulla a che fare con le circostanze materiali (geografiche, economiche, sociali, politiche, tecniche etc.), ma deriva dai bisogni insiti nella civiltà islamica. A differenza di altre forme di reclutamento militare – come i tributi tribali, il ricorso ai mercenari, la leva o il servizio universale – la schiavitù militare esiste soltanto in una civiltà in cui è quasi onnipresente. Per quanto ne so, nessun altro metodo di organizzazione militare ha legami così forti con un'unica civiltà.
*University of Chicago.
NOTE
[1] La mia tesi di dottorato, "From Mawla to Mamluk: the Origins of Islamic Military Slavery" (Harvard University, 1978), documenta questo alle pp. 41-55, 205-210. Si veda inoltre un articolo di prossima pubblicazione, "Ordinary Slaves in War".
[2] Ho contato una cinquantina di governanti che in origine erano schiavi-soldato.
[3] "From Mawla to Mamluk", p. 83.
[4] C. S. Baron de Montesquieu, The Spirit of the Laws, trans. T. Nugent (New York, 1949), Vol. I, pp. 243-244, 249.
[5] H. J. Nieboer, Slavery as an Individual System (The Hague, 1900), p. 403.
[6] M. Weber, The Theory of Social and Political Organization, trans. A. M. Henderson & T. Parsons (New York, 1947), p. 342-3. Per una delucidazione dell'idea di Weber, cfr. R. Bendix, Max Weber: an Intellectual Portrait (Garden City, N.Y., 1960), pp. 341-342.
[7] S. Andreski, Military Organization and Society (2nd ed. rev.: Berkeley and Los Angeles, 1968), pp. 197-198.
[8] A. G. B. & H. J. Fisher, Slavery and Muslim Society in Africa (Garden City, New York, 1971), p. 163.
[9] S. Vryonis, Review of Ursprung and Wesen der 'Knobenlese' im osmanischen Reich (Munich, 1963), in Balkan Studies, 5 (1964): 146.
[10] S. Vryonis, "Seljuk Gulams and Ottoman Devshirmes", Der Islam 41 (1965): 225.
[11] S. F. Sadeque, Baybars I of Egypt ([Dacca], 1956), pp. xiv-xvi.
[12] A. R. Meyers, "The 'Abid'l-Buhari: Slave soldiers and statecraft in Morocco, 1672-1790" (Ph.D. Cornell, 1974), p. 26.
[13] A. Lewis, Naval Power and Trade in the Mediterranean, A.D. 500-1100 (Princeton, 1951), p. 254.
[14] I. Hrbek, "Die Slawen im Dienste der Fatimiden", Archiv Orientální, 21 (1953): 543; S. D. Goitein, A Mediterranean Society (3. vols., incomplete; Berkeley), vol 1, p. 132 echeggia tale punto di vista.
[15] Ai fini del presente articolo, "estraneo" e "straniero" sono sinonimi.
[16] Le eccezioni a questo modello includono principalmente le dinastie locali in India, così come altre dinastie sparse come i Saffaridi, i Samanidi, i Sardabaridi e diverse comunità urbane siriane.
[17] Le argomentazioni seguenti devono molto alle conversazioni con i prof. Shmuel Eisenstadt e Richard Bulliet.
[18] Ibn Battuta, Travels in Asia and Africa, 1325-1354, tradotto in inglese e scelto da H. A. R. Gibb (London, 1929), pp. 244ff.
[19] E. Gellner, Saints of the Atlas (London, 1969), pp. 15-16.
[20] B. Lewis, "Politics and war", The Legacy of Islam, eds. J. Schacht and C. E. Bosworth (2nd ed. rev.: Oxford, 1974), p. 174.
[21] Ibid., p. l73.
[22] Hrbek, p. 545.
[23] C. E. Bosworth, The Ghaznavids (Edinburgh, 1963), p. 108.
[24] D. Ayalon, "Aspects of the mamluk phenomenon"; Der Islam, 53 (1976): 208; E. Ashtor, "Recent research on Levantine trade", Journal of European Economic History 1 (1973): 201; E. Ashtor, Les metaux precieux (Paris, 1971), pp. 99-108; R. Lopez, H. Miskimin, & A. Udovitch, "England to Egypt, 1350-1500: long-term trends and long-distance trade", Studies in the Economic History of the Middle East, ed. M. A. Cook (London, 1970), p. 127. I miei ringraziamenti al Dr. Boaz Shosron per i riferimenti di Ashtor.
[25] Ayalon, pp. 207-208; Hrbek, pp. 552-553.
[26] J. F. P. Hopkins, Medieval Muslim Government in Barbary until the Sixth Century of the Hijra (London, 1958).
[27] D. Ayalon, "Names, titles and 'nisbas' of the Mamluks", Israel Oriental Studies, 5 (1975), pp. 213-219.
[28] CHI 4.162; P. Wittek, "Türkentum und Islam, I", Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, 59 (1928): 517; e si vedano i numerosi esempi nel Cap. 6b.
[29] Ibn Khaldun, Al-Muqaddima, ed. E. Quatremère (Paris, 1858), vol. 1, p. 245.
[30] Per alcuni dettagli a riguardo, cfr. H. Rabie, "The training of the Mamluk fãris", in V. J. Parry and M. E. Yapp, War, Technology and Society in the Middle East (London, 1975), pp. 153-163.
[31] Ayalon, "Aspects", 208.
[32] I. H. Qureshi, The Administration of the Mughal Empire (5th ed. rev.: Karachi; 1966), pp. 124, 132.