Nel novembre del 1917, il segretario agli Affari Esteri britannico Arthur Balfour rese pubblico l'annuncio spettacolare che "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico". Per poi, però, aggiungere una clausola importante: "(...) essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina".
La semplice convinzione di Londra, formulata nel 1917, che le due parti della Dichiarazione Balfour potessero essere riconciliate, venne rapidamente sconvolta quando gli arabi palestinesi mostrarono apertamente che consideravano il sionismo un impedimento ai loro "diritti civili e religiosi". Con loro grande preoccupazione, le autorità britanniche constatarono nei trent'anni successivi che avrebbero potuto appoggiare la patria ebraica o una Palestina dominata dagli arabi, ma non entrambe. In effetti, nulla nelle vaste aree dell'Impero aveva preparato gli amministratori britannici a un confronto così tristemente a somma zero. Alla fine, gli inglesi si arresero e nel 1947, in un esempio unico di disfattismo imperiale, rimisero la questione nelle mani delle Nazioni Unite.
La cosa più onesta sarebbe stata quella di optare a favore o contro un focolare nazionale ebraico, senza clausole addizionali. Ma, tenuto conto delle terribili esigenze della guerra, Londra voleva soprattutto non alienarsi nessuna parte, pertanto, ignorò gli obiettivi contrastanti di ebrei e arabi, e lasciò che le cose andassero come andassero.
Questa storia mi balza alla mente perché l'amministrazione Bush oggi sembra che stia cadendo quasi nella stessa trappola. In un importante discorso pronunciato nel maggio del 1989, che delineava la posizione americana in merito a ciò che viene definito in modo ottimistico il processo di pace arabo-israeliano, il segretario di Stato americano James A. Baker III ha invocato l'autogoverno dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, in un modo che sia accettabile ai palestinesi, a Israele e alla Giordania. Tale formula lascia un ampio margine ai palestinesi per ottenere i loro pieni diritti politici. Fornisce altresì un'ampia protezione alla sicurezza di Israele.
Queste parole hanno una strana somiglianza con il tortuoso equilibrio della Dichiarazione Balfour. Laddove Balfour invocava un "focolare ebraico", Baker chiede "l'autogoverno dei palestinesi". Nel linguaggio altamente strutturato della diplomazia, entrambe non sono formule standard, tanto ambigue quante vaghe. In entrambi i casi, si fa riferimento a un'unità politica sovrana tutt'altro che piena, senza precisare i dettagli. E laddove Balfour sanciva che i "diritti civili e religiosi" degli arabi non dovevano essere lesi, Baker insiste sulla tutela degli interessi di sicurezza di Israele. Entrambi rappresentano delle grandi potenze prive del potere di fare rispettare questi obiettivi contraddittori. In effetti, Baker ha proposto ai palestinesi lo stesso accordo che Balfour aveva offerto ai sionisti nel 1917: potete ottenere (più o meno) ciò che volete, ma il vostro principale avversario deve (più o meno) acconsentire.
Come indica chiaramente l'amara eredità della Dichiarazione Balfour, una soluzione auto-contraddittoria del genere non solleva che speranze da una parte e timori dall'altra. Washington dovrebbe abbandonare la sua politica ossimorica; la cosa più onesta sarebbe quella di optare a favore o contro una patria nazionale palestinese, senza clausole aggiuntive. E c'è un altro problema. Il governo statunitense si oppone tanto al controllo permanente da parte di Israele sui Territori occupati quanto a uno Stato indipendente. Quale alternativa resta? Qualcosa che viene definito "entità palestinese". Nessuno sa come sarebbe questa entità, ma ecco alcune condizioni che, secondo Ze'ev Schiff, un eminente analista dell'esercito israeliano, devono sussistere:
All'entità palestinese sarebbe vietato stringere qualsiasi alleanza militare o consentire sul proprio territorio lo stazionamento, il transito o l'addestramento di forze militari straniere o di polizia. Questo divieto si estenderebbe a consulenti militari e ad addestratori stranieri.
L'entità palestinese sarebbe autorizzata a produrre solo armi leggere per le sue forze di polizia...
Truppe, sistemi di armi (come carri armati, missili, artiglieria, aerei militari o guerra elettronica), fortificazioni militari o sensori elettronici (come i sistemi di acquisizione dei bersagli missilistici) non saranno consentiti all'interno dell'entità palestinese.
La risposta palestinese a queste idee non è stata incoraggiante, a dir poco. Come un eminente intellettuale palestinese, Walid Khalidi, osservava nel 1978: "Uno Stato demilitarizzato si autodistruggerebbe. Senza le forze armate nazionali, la leadership politica dello Stato diventerebbe lo zimbello del mondo arabo". Più di recente, Yasser Arafat, presidente dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha dichiarato che accetterebbe tali limiti solo se si applicassero in modo identico in Israele.
Inoltre, in un ordine mondiale di Stati sovrani, non è ovvio che "un'entità palestinese" durerebbe a lungo. Le dinamiche del nazionalismo assicurano che questa eccentrica unità diventerebbe sovrana o cadrebbe sotto l'influenza di uno Stato esistente (Israele, Giordania o Siria). In altre parole, il controllo straniero o uno Stato palestinese sono le uniche due opzioni realistiche. Nel tentativo di raggiungere un compromesso, proprio come fecero gli inglesi nel 1917, Washington è tenuta a promuovere non la pace, ma il conflitto permanente.
Ma questa non è la sola cosa sbagliata nell'approccio del governo americano. In questo momento di quiescenza in Medio Oriente e di eccezionale attività altrove nel mondo, c'è anche l'eccessiva enfasi abbastanza inspiegabile posta sugli arabi e sugli israeliani. L'anno 1989 ha visto una serie di rivoluzioni in sei Paesi dell'Europa orientale; la probabile riorganizzazione dell'intero sistema di sicurezza post-bellico in Europa; i primi grandi cambiamenti nel sistema sovietico in trentacinque anni; il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan; i traumi in Cina; e l'affermazione del Giappone come reale attore mondiale. Ma dove era rivolta l'attenzione del segretario di Stato per gran parte di quell'anno? Secondo Daniel Kurtzer, vice-assistente del segretario di Stato per gli Affari arabo-israeliani, James Baker era "in contatto telefonico quasi quotidiano" con i leader di Israele, Egitto e di altri Paesi del Medio Oriente. In effetti, lo sforzo di Baker è stato talmente sistematico da essere soprannominato "la diplomazia del telefono" (sulla falsariga della "diplomazia della navetta"). Secondo la stessa testimonianza del Segretario di Stato, egli ha trascorso quattordici dei suoi primi ventiquattro mesi a lavorare sul conflitto arabo-israeliano.
Per un osservatore esterno, è pressoché incomprensibile che Baker dedichi così tanto tempo a quello che ora è una questione secondaria. Gli specialisti di livello inferiore dovrebbero occuparsi degli arabi e degli israeliani, lasciando il tempo al Segretario di Stato per dedicarsi a questioni davvero fondamentali. Questa importanza minimizzata avrebbe l'ulteriore vantaggio di esporre meno il prestigio di Washington a ciò che i funzionari americani stessi riconoscono essere un'impresa a rischio molto elevato.
È inoltre preoccupante constatare ciò che sembra essere un'ipotesi a priori a Washington, ossia che la dichiarazione di Yasser Arafat del dicembre 1988, in cui egli riconobbe con riluttanza la legittimità dello Stato di Israele e rinunciò al terrorismo, ha apportato un cambiamento a lungo termine nella posizione dell'OLP, e non solo tattico. Tuttavia, da quando la dichiarazione è stata rilasciata, la retorica infiammata e le attività violente dell'OLP sembrerebbero indebolire il valore della pretesa di Arafat a una nuova politica e confermare che, ancora una volta, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina si preoccupa maggiormente della sopravvivenza dell'organizzazione anziché della pace. Di certo, i funzionari del governo statunitense affermano di essere scettici e monitorano da vicino l'OLP nelle parole e nelle azioni, ma la loro esitazione denota fortemente l'ennesimo esempio della riluttanza del Dipartimento di Stato a dire le cose come stanno.
Un'ultima preoccupazione è ancora più lungimirante. Ha a che fare con l'ipotesi formulata a Washington che il conflitto arabo-israeliano possa essere risolto affrontando la questione palestinese. Se soddisfare le aspirazioni nazionali dei palestinesi risolve il conflitto, allora Washington è sostanzialmente sulla buona strada, anche se commette errori operativi. Ma se non è così, la politica americana è fondamentalmente instabile.
Tuttavia, questa enfasi sui palestinesi (una prospettiva che io definisco "palestinianismo") ha due importanti difetti: in primo luogo, anche se i palestinesi dovessero essere soddisfatti, sono troppo deboli per fermare il conflitto degli arabi con Israele; e in ogni caso, le prove disponibili mostrano che i palestinesi non possono essere soddisfatti da alcuna soluzione, a parte la distruzione di Israele.
Un dibattito un tempo vivace
Nei decenni passati, gli israeliani (e i loro sostenitori) hanno descritto la loro lotta con gli arabi come un conflitto internazionale tra Stati. Da parte loro, gli arabi (e i loro sostenitori) consideravano la lotta come uno scontro intracomunitario tra ebrei o israeliani e i palestinesi. In fondo, il dibattito riguardava l'interpretazione: si trattava di una disputa tra i Paesi arabi e Israele o tra palestinesi e israeliani? Stati o popoli? Gli israeliani volevano piene relazioni diplomatiche, sostenendo, in sostanza che "i Paesi arabi devono trattare Israele come uno Stato normale". Da parte loro, gli arabi hanno cercato di risolvere la questione dal punto di vista umano, rispondendo che "non ci può essere alcuna soluzione fino a quando il problema palestinese non sarà risolto". Anche i leader arabi (indipendentemente da ciò che pensavano davvero) hanno rilevato la dimensione comunitaria. Così re Hussein ha riaffermato lo scorso ottobre che "la lotta israelo-palestinese è all'origine del conflitto mediorientale". Questa differenza ha agito a diversi livelli. Gli israeliani raffiguravano il campo di battaglia come l'intero Medio Oriente. Gli arabi riconoscevano solo l'unità della Palestina. Gli israeliani aspiravano a vivere in pace con i Paesi vicini e gli arabi miravano a riconquistare ciò che avevano perso in Palestina. Gli israeliani ritenevano che il confronto fosse principalmente militare, gli arabi lo consideravano una questione di diritti umani. Gli israeliani descrivevano il loro Paese come un piccolo frammento circondato da enormi distese di territori arabi; gli arabi rilevavano la crescita apparentemente inesorabile di Israele in tutta la Palestina mandataria. La nomenclatura ha confermato questa differenza: gli israeliani utilizzavano termini come "conflitto arabo-israeliano" e "conflitto mediorientale", gli arabi parlavano di "problema della Palestina" o di "problema palestinese".
Questa vivace controversia su come definire la lotta non esiste quasi più. Silenziosamente, costantemente e quasi senza preavviso, il "palestinianismo" ha relegato ai margini il conflitto di Stato. Come suggeriscono le votazioni incessantemente schiaccianti alle Nazioni Unite, quasi tutti i governi condividono la visione degli arabi. E pare che la pensi così anche l'opinione pubblica di tutto il mondo. Negli Stati Uniti, gli specialisti di Medio Oriente, in grande maggioranza, abbracciano il "palestinianismo", una miriade di organizzazioni e di media ne hanno seguito l'esempio e ora il ramo esecutivo si muove nella stessa direzione. In base a questa visione, gli Stati vengono spesso visti come meramente accessori al conflitto, come mandatari che agiscono in nome dei palestinesi.
Ma la cosa ancora più importante è che perfino gli israeliani hanno finito per accettare il punto di vista arabo. La maggior parte dei membri del Partito Laburista israeliano accetta il "palestinianismo". È promosso da eloquenti portavoce come Shulamit Aloni, Abba Eban, Amos Elon, Yehoshafat Harkabi, Mark Heller, Amos Oz, Matityahu Peled, Ze'ev Schiff, Ezer Weizman, e A. B. Yehoshua. Il Jaffee Center for Strategic Studies, il Centro Internazionale per la Pace in Medio Oriente, l'Associazione per i Diritti Umani Israeliana, il Centro d'Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati (B'tzalem), Peace Now e il Partito Ratz condividono tutti questa prospettiva. Occorre notare che alcuni israeliani hanno adottato il "palestinianismo" per motivi tattici, ritenendolo più flessibile nei confronti di Israele rispetto ai Paesi arabi. Yehoshafat Harkabi, che si definisce una colomba machiavellica, corrisponde a questa descrizione.
L'imprimatur israeliano è servito a legittimare il "palestinianismo" agli occhi degli ebrei americani, compresi individui come Ed Asner, Howard Fast, Rita Hauser, Stanley Hoffman, Philip Klutznick, and Anthony Lewis e Milton Viorst. Anche riviste come Tikkun e Moment, organizzazioni come il Congresso Ebraico Americano, il Collegio Rabbinico Ricostruzionista e la New Jewish Agenda, Americans for a Progressive Israel, il Jewish Committee on the Middle East e la Jewish Peace Lobby promuovono il tradizionale punto di vista arabo. Un recente sondaggio ha mostrato che questo approccio è appoggiato da non meno di tre quarti delle principali organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti.
A dire il vero, l'idea che il conflitto di Stato conti di più ha ancora potenti sostenitori negli Stati Uniti tra l'American Israel Public Affairs Committee, la Zionist Organization of America e anche nel Congresso statunitense, così come nel Partito Likud in Israele. Il primo ministro Yitzhak Shamir, ad esempio, ha dichiarato alla fine del 1989 che "l'intesa deve essere innanzitutto raggiunta con quei Paesi arabi che sono ancora in guerra con noi, perché un accordo con i palestinesi – che non sarà accompagnato da uno con gli Stati arabi – sarebbe inutile". Eppure, anche il bastione del Likud è diviso, con nientemeno che un personaggio come il ministro degli Esteri Moshe Arens che accetta una forma di palestinianismo: "Il problema più minaccioso per la nostra esistenza è la questione palestinese. È al centro del Paese, in prossimità dei centri abitati, e non altrove in Iraq o anche sulle alture del Golan". In entrambi i Paesi, i fautori della prospettiva di Stato, sono adesso sulla difensiva.
Perché il palestinianismo è così forte?
Come suggerisce la dichiarazione di Arens, il palestinianismo prospera perché i palestinesi ora dominano l'attività araba nei confronti di Israele, tanto violenta quanto diplomatica. La seguente notizia del marzo 1988 illustra perfettamente i fatti accaduti dall'inizio dell'Intifada: "La distruzione di ieri di capi di bestiame a Netusha è l'ultima indicazione della forma che il conflitto sta assumendo sempre più. La settimana scorsa, una piantagione di avocado in un kibbutz del nord del Paese è stata vandalizzata e i residenti arabi di Baqaal-Sharqiya si sono lamentati del fatto che i coloni [ebrei] avevano bruciato e tagliato gli alberi di olivo nel loro villaggio". Più in generale, come scrive Thomas L. Friedman nel New York Times, questa è un'epoca "in cui il conflitto internazionale in Medio Oriente, con eserciti in massa e missili, è stato almeno temporaneamente sostituito da un conflitto intracomunitario tra israeliani e palestinesi con armi leggere e sassi". Parallelamente agli americani, che ora si preoccupano più del crimine che dei missili sovietici, gli israeliani si preoccupano più degli accoltellamenti che dei missili siriani. Ma come mai i palestinesi, un piccolo popolo senza uno Stato, sono riusciti quasi a escludere gli Stati arabi dal quadro?
In gran parte, la spiegazione risiede negli stessi Stati, i quali (ad eccezione della Giordania) hanno contribuito a sviluppare e quindi a patrocinare il palestinianismo. Hanno di fatto creato l'OLP nel 1964 e l'hanno alimentata con denaro, armi e sostegno diplomatico. In parte, ciò ha a che fare con la serie di vittorie militari israeliane, che hanno modificato l'immagine dello Stato ebraico da sfortunato e ammirato sfavorito a grande potenza regionale ("Visitate Israele prima che venga a farvi visita"). Anche il merito deve andare agli stessi palestinesi. Gli intellettuali hanno esposto il loro caso con una tale abilità che sono riusciti a far sentire la loro voce; Yasser Arafat, nonostante tutti i suoi fallimenti di leader militare, è un brillante giornalista e diplomatico; e i lanciatori di pietre avviarono l'Intifada nel dicembre 1987.
A posteriori, è evidente che il palestinianismo ha assunto un peso preponderante a partire dalla metà del 1982. Mentre Gerusalemme restituiva all'Egitto il Sinai, il 25 aprile di quell'anno, il ruolo di Israele in Egitto cambiò bruscamente e da interno divenne estero. Poi, quaranta giorni dopo, Menachem Begin decise di seguire l'OLP in Libano, portando alla battaglia incessante di Beirut tra Israele e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Una decisione che incoronò i palestinesi come il principale avversario di Israele, realizzando in tal modo inavvertitamente l'obiettivo a lungo perseguito dall'OLP.
Nel frattempo, gli Stati arabi, afflitti dalle loro difficoltà, iniziarono a prendere le distanze dal conflitto arabo-israeliano. Il boom petrolifero degli anni Settanta portò inesorabilmente alla crisi petrolifera degli anni Ottanta, causando un appiattimento dei tassi di crescita, un crollo delle spese militari e una riduzione del peso politico. La guerra Iran-Iraq ha calamitato l'attenzione precedentemente accordata a Israele e divenne chiaro che quest'ultimo era un lusso, probabilmente di quelli che gli Stati non potevano permettersi. Dal punto di vista ideologico, i regimi arabi hanno perso forza: l'anti-imperialismo, l'antisionismo e il socialismo arabo sono falliti, rimpiazzati da una maggiore sobrietà e da un realismo più duro. Le ambizioni esuberanti hanno lasciato il posto all'introspezione caustica.
Di conseguenza, il Regno hashemita di Giordania rinunciò alle sue rivendicazioni sulla Cisgiordania (almeno, temporaneamente) di fronte a una popolazione irrequieta e a un crescente debito; anche le autorità irachene e saudite trovarono meno motivi per preoccuparsi del conflitto contro Israele. Ma da nessuna parte questa tendenza era più evidente che in Egitto. Per la prima volta dal 1943, il Cairo non cercava di avere un ruolo centrale nel conflitto arabo-israeliano. Sotto Hosni Mubarak, l'attenzione del governo era (fortunatamente) rivolta all'eliminazione dei sussidi statali, alla costruzione delle opere pubbliche, al contenimento del tasso di natalità e a una serie di altre questioni interne urgenti. Se Gamal Abdel Nasser aspirava a diventare presidente del Medio Oriente, Mubarak non chiede altro che essere il sindaco dell'Egitto. In Iraq, la guerra di Saddam Hussein contro l'Iran nel 1980, che sarebbe dovuta durare solo qualche settimana, continua a ossessionare il Paese anche dopo il cessate il fuoco.
Il governo siriano era in qualche modo diverso: mentre la sua ostilità nei confronti di Israele non diminuiva, i gravi problemi economici ostacolavano le idee grandiose di Hafiz al-Asad sulla parità strategica con Israele. Anche Muammar Gheddafi ha perso forza, in gran parte a causa di un'economica in declino. Sembra anche che Gheddafi abbia perso il coraggio a seguito del raid americano su Tripoli, lanciato nell'aprile 1986. L'Iran rimane l'unico Stato impegnato nella battaglia contro Israele, ma anche in tal caso, i mezzi ostacolano le intenzioni.
La debolezza palestinese
Ma per quanto il Cairo, Amman, Damasco e altre capitali arabe stiano prendendo le distanze dal conflitto con Israele, questi Paesi continuano ad essere essenziali per una risoluzione del conflitto, molto più degli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, della diaspora palestinese o dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Nei momenti di onestà, anche la leadership dell'OLP ammette questo fatto. Pertanto, Salah Khalaf ha detto in un'intervista del 1989: "Non può esserci una risoluzione in Medio Oriente senza la Siria".
Inoltre, gli Stati cercano ancora di controllare una parte o la totalità della Palestina, anche se nascondono quest'aspirazione. I governi della Giordania, della Siria, della Libia e dell'Iran hanno dei punti di vista molto elaborati sul futuro della Palestina. Le ambizioni giordane e siriane sono quelle più evidenti; i loro leader di fatto considerano la Palestina parte legittima dei loro patrimoni. Il governo libico e quello iraniano sperano apertamente di piazzare al comando i loro agenti.
Al contrario, l'OLP ha poco potere indipendente. Yasser Arafat è più una figura mediatica che un uomo di potere; non può imporre la sua volontà a un solo Stato, con la possibile eccezione del Kuwait (dove i palestinesi costituiscono circa un quarto della popolazione). I governi dispongono di ricchezza, forza militare, influenza politica e di tutti gli altri strumenti di Stato che non sono accessibili ai palestinesi e dai quali dipende l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Nei suoi venticinque anni di vita, l'OLP non è mai stata in grado di ignorare i desideri dei Paesi arabi.
La deferenza degli Stati nei confronti dell'OLP è probabilmente temporanea. Re, presidenti e colonnelli sono coinvolti totalmente negli affari arabo-israeliani da più di mezzo secolo, e il loro ruolo discreto di oggi è dovuto alla debolezza e non alla riluttanza. Il confronto israelo-palestinese domina attualmente il conflitto solo perché gli Stati si occupano di altre questioni. Il ripiegamento siriano e quello libico sono riluttanti; ovviamente, se Asad e Gheddafi dovessero riacquistare forza, cercheranno ancora di imporre le loro idee ai palestinesi. Nel caso del re Hussein, la rinuncia del 1988 alla Cisgiordania non indica molto, e come afferma Adam Garfinkle, questa decisione evoca l'immagine di un albero che perde le foglie in inverno – non è quindi un'azione inalterabile, ma parte di un ciclo continuo.
Quando le circostanze mutano, alcuni Paesi probabilmente rientreranno più attivamente nell'arena. Dichiarazioni specifiche evidenziano questa eventualità. In Giordania, "Atallah" Atallah, il leader palestinese preferito di Hussein ha affermato ciò che il governo stesso non ha ancora osato dire: "La giustificazione utilizzata da certe persone per chiedere la rottura dei legami tra la Cisgiordania e la Giordania non esiste più ora che tutti gli sforzi ufficiali palestinesi hanno raggiunto un punto morto". Se ci fosse una reale prospettiva di pace, gli Stati tronerebbero con una vendetta. Il Cairo cercherebbe di guidare i negoziati, Damasco pretenderebbe la restituzione del Golan, Amman vorrebbe risolvere il problema dei rifugiati, mentre ci si aspetterebbe che Riad e le capitali del Golfo fornissero finanziamenti.
Arafat non può neppure controllare gli ideologi mediorientali come i musulmani fondamentalisti (soprattutto quelli in Libano) e panarabisti (che siano nasseristi o baathisti). In effetti, non può nemmeno imporre la sua volontà ai numerosi gruppi palestinesi che rifiutano la sua leadership. Questi si dividono in due tipi, le organizzazioni laiciste con sede a Damasco che costituiscono il Fronte di Salvezza Nazionale della Palestina; e i fondamentalisti musulmani che vivono principalmente a Gaza, dove, secondo alcune fonti, sono già più numerosi dei sostenitori dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina nella Striscia di Gaza. Nelle parole di Shimon Peres: "Non c'è niente di più falso dell'OLP; non c'è anguilla più sfuggente di Arafat. Non ha alcun controllo sull'OLP, su Nayif Hawatma o su George Habash".
Ben lungi dal seguire l'esempio di Arafat, i leader palestinesi rivali lo stigmatizzano e lo contrastano costantemente. Ad esempio, Abu Musa ha replicato alla "iniziativa traditrice" di Ginevra con la promessa di "continuare a innalzare il vessillo della lotta" contro di lui. La Jihad Islamica ha reagito condannando "traditori e agenti" e invitando "il nostro popolo a combatterli con forza e affrontarli con un pugno di ferro". Quando Arafat ha reso noto la propria disponibilità ad andare a Gerusalemme per fare la pace, Abu Musa ha minacciato di ucciderlo. Non molto tempo dopo, in una dichiarazione con cui molti israeliani sarebbero d'accordo, Abu Musa ha definito Arafat "un traditore, un imbroglione e un assassino, un criminale comune". Durante la sua visita a Parigi, Arafat ha definito la Carta costitutiva dell'OLP "caduca , nulla e vuota"; George Habash ha risposto dichiarando che "Yasser Arafat non parla in nome della grande maggioranza del popolo palestinese". E Ahmad Jibril ha paragonato Arafat al Maresciallo Pétain e l'ha minacciato di morte, assassinato come Anwar as-Sadat.
Un ipotetico esempio mostra la debolezza di Arafat. Presumiamo, per qualche miracolo, che lui e gli israeliani raggiungessero un accordo completo sull'autogoverno palestinese. Cosa cambierebbe? Non molto. I missili siriani e i soldati giordani rimarrebbero al loro posto, così come la pace fredda con l'Egitto, mentre gli elementi anti-Arafat dell'OLP continuerebbero a impegnarsi nel terrorismo. L'Intifada probabilmente andrebbe avanti, anche se attenuata. Al contrario, ipotizziamo che Hafiz al-Asad firmasse un trattato di pace con gli israeliani. In tal caso, la guerra tra Stati terminerebbe di fatto, perché Amman seguirebbe immediatamente l'esempio di Damasco. Alcuni dei gruppi palestinesi appoggiati dalla Siria raggiungerebbero accordi con Israele, così come Arafat. Anche se gli estremisti palestinesi continuerebbero gli scontri, il conflitto diventerebbe molto meno pericoloso.
In breve, Arafat non prende le decisioni vitali della guerra e della pace. Gli aerei da combattimento in Siria, i missili e le armi chimiche binarie in Iraq, e i carri armati in Egitto contano più delle pietre in Cisgiordania. Per certi versi, la dimensione militare è più determinante che mai, con l'introduzione di armamenti sempre più sofisticati e l'affievolimento dei tabù (come quello contro le armi chimiche).
Per tutti questi motivi, è un errore concentrarsi sui palestinesi. Come rileva Max Singer del Potomac Institute, "per Israele fare pace con i palestinesi mentre continua la guerra araba contro Israele sarebbe come fare la pace con una mano, mentre il resto del corpo cerca di ucciderti". Solo quando verrà raggiunta la pace a livello statale, sarà possibile affrontare le aspirazioni dei palestinesi.
L'intransigenza palestinese
Ammesso che sia mai possibile che Israele soddisfi queste aspirazioni con certezza, c'è un secondo problema rilevante con il palestinianismo: ciò presuppone una disponibilità al compromesso e di coesistere con Israele.
Ecco come il segretario di Stato Baker definisce la posizione ufficiale americana: "Gli Stati Uniti non appoggiano l'annessione o il controllo israeliano permanente della Cisgiordania e di Gaza, né appoggiano la creazione di uno Stato palestinese indipendente". [Questa e altre affermazioni nel discorso di Baker hanno suscitato le ire in Israele, al punto che, mettendo da parte le accortezze diplomatiche, il primo ministro Yitzhak Shamir ha definito il discorso "inutile" (Associazione della Stampa, 23 maggio 1989).] Con tali parole, Baker ha detto di fatto agli israeliani: Sì, placheremo i vostri timori giustificati degli arabi, ma non soddisferemo il vostro desiderio di espansione territoriale. Ai palestinesi, il segretario di Stato americano ha reso noto: Sì, vogliamo soddisfare i vostri legittimi obiettivi nazionalisti, ma non tollereremo i vostri tentativi di distruggere Israele. Secondo Baker, il ruolo degli americani è quello di aiutare a trovare la combinazione che offre a ciascuna parte ciò che più desidera, ma non a scapito degli interessi basilari del suo nemico. L'approccio del governo statunitense presume che il compromesso sia possibile.
Ciò porta a un ulteriore presupposto che israeliani e palestinesi possano vivere tranquillamente e in pace fianco a fianco. Il Benelux viene indicato come un "buon esempio" per Israele, per la Giordania e per i palestinesi! Alcuni vanno ancora oltre e fanno paragoni con il Connecticut, lo Stato di New York e con il New Jersey.
Due errori sono alla base di questa linea di pensiero inopportunamente ottimista: la visione americana del resto del mondo e una interpretazione errata dei sentimenti politici palestinesi.
Una vecchia visione americana degli affari esteri sostiene che i conflitti derivino dalle incomprensioni. Se solo i nemici possono essere convinti di sedersi insieme, possono risolvere le loro divergenze. (O, come nelle memorabili parole di un diplomatico americano, "Perché arabi e israeliani non possono comportarsi da bravi cristiani?") La buona volontà può superare i disaccordi, il compromesso da avvocato può risolvere quasi ogni disputa. Con buona pace di Will Rogers, questa è una politica estera fondata su: "Non ho mai conosciuto un Paese che non mi piace". Per quanto riguarda il processo di pace in Medio Oriente, la visione americana è uno dei vantaggi reciproci; il successo (come Amos Perlmutter ha di recente affermato) è un risultato "senza vincitori e senza perdenti".
Purtroppo, il compromesso non è sempre possibile, poiché alcuni conflitti non hanno soluzione. Quando le visioni nazionaliste si scontrano, è particolarmente probabile che differenze irriconciliabili richiedano che ci sia un vincitore e un perdente. L'Ulster farà parte della Gran Bretagna o della Repubblica d'Irlanda; Cipro sarà un Paese o due; Taiwan farà parte della Cina o no. E Gerusalemme sarà sotto il controllo ebraico o musulmano. Il famoso scrittore Badr 'Abd al-Haqq coglie perfettamente questo sentimento: la Palestina, egli scrive, "dovrebbe accogliere noi, gli arabi, o loro, gli ebrei. Non ci possono essere compromessi".
Questa tesi è in netto contrasto con le numerose prove che la maggior parte dei palestinesi ha sempre cercato e cerca ancora di distruggere Israele. Nel passare in rassegna i loro atteggiamenti dal 1918 al 1948, Joseph Nevo usa i termini "monolitico e intransigente" per descrivere l'opposizione palestinese agli ebrei. Decenni dopo, un sondaggio condotto nel 1980 su degli studenti palestinesi in Kuwait ha rilevato che il 100 per cento (!) si rifiutava di riconoscere l'esistenza di Israele. Da un sondaggio condotto nel 1987 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è emerso to che il 78 per cento della popolazione era favorevole a "uno Stato palestinese democratico in tutta la Palestina", mentre solo il 17 per cento accettava "uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza" (quasi 5 contro 1). I ricercatori che hanno realizzato il sondaggio, Mohammed Shadid e Rick Seltzer, hanno concluso a giusto titolo che "l'attuale leadership dell'OLP è molto più moderata della popolazione palestinese residente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza".
Questa opinione è stata confermata nel novembre 1989 dallo spettacolare successo dei musulmani fondamentalisti nelle elezioni giordane. Non solo hanno conquistato 32 seggi su 80, ma ci sono riusciti, nonostante estesi brogli elettorali per indebolirli. Per la precisione, i fondamentalisti hanno riportato la più larga vittoria nei distretti di Amman, dove i palestinesi sono concentrati; sostanzialmente, gran parte del loro appello aveva a che fare con l'invito a un jihad per distruggere Israele. E questa non è solo retorica, poiché i fondamentalisti giordani mantengono stretti legami con i loro omologhi nei Territori occupati da Israele, a cui inviano denaro, armi, esplosivi e istruzioni.
Tali omologhi, di recente organizzatisi in Hamas e nella Jihad Islamica, sono più estremisti nel loro rifiuto di Israele, anche rispetto ai leader dell'OLP contrari ad Arafat, come George Habash, Nayif Hawatma, Ahmad Jibril, Abu Musa, Abu Nidal, 'Isam al-Qadi e Samir Ghawsha. Un opuscolo di Hamas del 14 marzo 1988 dichiarava: "'No' alla pace con l'entità sionista (...) Dov'è la giustizia con loro che ancora possiedono un pollice sulla costa di Haifa e di Acri?" Da parte sua, Sheikh Khalil Quqa di Gaza si è detto contrario a "concedere agli ebrei perfino un granello di sabbia". Se si tenessero le elezioni, Hamas potrebbe ottenere il 40 per cento dei voti in Cisgiordania e a Gaza, il che spiega bene perché l'OLP abbia delle riserve sulle elezioni.
Nella radicata tradizione della politica palestinese, i moderati vengono messi a tacere da intimidazioni sistematiche. È significativo che il numero di episodi e il loro grado di brutalità sia aumentato sostanzialmente non appena il governo israeliano ha lanciato nel maggio 1989 un'iniziativa di pace. Durante i primi sei mesi del 1989, 710 degli attacchi lanciati dai palestinesi sono stati diretti contro gli ebrei, ma quasi altrettanti, 670, erano diretti contro gli arabi. Tra i bersagli preferiti c'erano gli anziani dei villaggi, i giornalisti, i poliziotti e i lavoratori giornalieri in Israele. In parte, le uccisioni sono state provocate dalla rivalità tra Hamas e l'OLP per la leadership nei Territori occupati.
Non c'è dunque da stupirsi che quando nel programma "Nightline" dell'ABC venne chiesto a un gruppo di palestinesi all'inizio del 1988 se avrebbero accettato Israele dentro i confini antecedenti al 1967, nessuno rispose inequivocabilmente "Sì". All'inizio del 1988, Mahmoud Darwish, un uomo considerato "l'alfiere delle colombe dell'OLP", scrisse una poesia rivolta agli israeliani che recitava così:
Fuori dalla nostra patria...dalla nostra terra... dal nostro mare...
dal nostro grano... dal nostro sale... dalla nostra ferita...
da ogni cosa.
Uscite dai ricordi della memoria....
Alcuni israeliani inclini al palestinianismo si disperarono per questa poesia; altri trovarono difficile dare una spiegazione alla sua chiara ostilità.
Se la poesia può essere ignorata, non è così per i raccapriccianti atti di barbarie. È abbastanza grave che l'Intifada abbia ispirato la brutalità palestinese contro gli ebrei (tra cui il dirottamento di un bus su una scogliera) e i "collaboratori" (compresi molti attacchi d'ascia sferrati nei vicoli); ancora peggio è il fatto che queste azioni sono state celebrate dai leader palestinesi. Ad esempio, Baghdad Voice, la stazione radio ufficiale dell'OLP a Baghdad, ha definito l'operazione "eroica".
Come ultimo esempio di ostilità, è opportuno rilevare un dibattito che ebbe luogo alla fine del 1988 sulle pagine di Ad-Dustur, un quotidiano giordano. Nimr Sirhan, uno storico palestinese, ha debuttato con un articolo a favore del riconoscimento dello Stato di Israele, in cambio della creazione di uno Stato palestinese indipendente. Sirhan ha affermato molto chiaramente che considerava questo un espediente temporaneo in previsione dell'eliminazione di Israele.
Dobbiamo trarre una lezione da ciò che Saladino fece durante le Crociate, quando accettò una parte liberata della Palestina e riconobbe uno stato crociato in un'altra parte della Palestina, fino a un secolo dopo, quando [i re egiziani] al-Ashraf Khalil e al-Ashraf Qala'un sguainarono le loro spade e cancellarono l'invasione crociata. (...) Dico a coloro che invocano la liberazione dal fiume al mare che il momento in cui le loro parole si concretizzeranno arriverà in seguito.
Sebbene Sirhan auspicasse una soluzione dei due Stati solo come un passo verso la distruzione di Israele, il suo articolo sollevò scalpore. "Noi non riconosceremo Israele, non importa quali siano le giustificazioni", ha scritto Rawda al-Farkh al-Hudhud, una scrittrice di libri per l'infanzia. Isma'il al-Ma'mun ha aggiunto: "Dico no a Israele, no al riconoscimento di Israele, no alla disperazione, no alla sconfitta e no alla resa". Badr 'Abd al-Haqq ha risposto nelle pagine di Ar-Ra'y, un altro quotidiano giordano, dicendo:
Sono uno di quelli che credono che, se verrà creato, uno Stato palestinese indipendente dovrebbe trovarsi nell'area che si estende dal Mare Mediterraneo al fiume Giordano...
Andrei ancora oltre, travalicando ciò che non è più accettabile, e direi che vorrei gettare in mare gli ebrei, per essere divorati dai pesci affamati del Mediterraneo.
Che peso hanno le affermazioni timide e ambigue di fronte a questa valanga di opinioni?
Poi c'è il fatto che israeliani e palestinesi sono impegnati in una guerra comunitaria dal 1929, il che rende assai difficile immaginarli come olandesi e lussemburghesi. Thomas Friedman descrive l'antagonismo in From Beirut to Jerusalem, affermando:
Una parte aveva coltelli e pistole; l'altra aveva agenti segreti e tribunali. Mentre ognuna delle parti gridava costantemente al mondo quanto l'altra fosse malvagia, quando si guardavano negli occhi, nella stanza degli interrogatori o prima di affondare un coltello in un vicolo, dicevano qualcosa di diverso: farò tutto ciò che devo per sopravvivere. Non ho dubbi a riguardo.
Nessuna manovra diplomatica, a prescindere da quanto fosse abile, può indurre due di queste popolazioni ostili a deporre un giorno le armi e (come indica il piano americano) e a vivere fianco a fianco.
La triste conclusione è inevitabile: può esserci un Israele e una Palestina, ma non entrambi. Pensare che due Stati possano coesistere pacificamente e stabilmente nel piccolo territorio tra il fiume Giordano e il Mare Mediterraneo significa essere ingenui o ipocriti. Se gli ultimi settant'anni insegnano qualcosa, è che può esserci un solo Stato a ovest del fiume Giordano. Pertanto, per coloro che si domandano perché i palestinesi debbano essere privati di uno Stato, la risposta è semplice: concedendogliene uno si metterà in moto una serie di eventi che porteranno alla sua estinzione o all'estinzione di Israele.
Cosa dovrebbero fare gli americani?
Nel 1983, ho scritto che l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina è essenzialmente una creatura degli Stati arabi e che "si modererà solo quando i suoi protettori arabi lo vorranno; fintanto che il consenso arabo avrà bisogno dell'OLP per rifiutare Israele, dovrà farlo". Ho inoltre sottinteso, osservando la quiescenza della Cisgiordania e di Gaza, che quei palestinesi con una conoscenza diretta di Israele non condividevano le illusioni dell'OLP sull'eliminazione dello Stato ebraico. Da parte sua, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina dipende dagli Stati e non può facilmente sfidare la media ponderata dei loro desideri. Ciò è avvenuto sin dalla genesi del nazionalismo palestinese nel 1920.
A posteriori, sembra che io abbia ragione sul primo punto, ma non sul secondo. Gli Stati arabi hanno moderato le loro politiche nei confronti di Israele e, come se fosse stato un suggerimento, Arafat li ha seguiti, moderando anch'egli la propria posizione. Ma mi sono sbagliato aspettandomi che gli stessi palestinesi sarebbero rimasti più moderati rispetto al consenso degli Stati arabi e dell'OLP. Gli avvenimenti recenti indicano esattamente il contrario: mentre gli Stati sono sempre più inclini a scendere a compromessi, i palestinesi hanno sviluppato un profondo senso di identità nazionale e ora, più che mai, insistono sulla distruzione totale di Israele.
Pertanto, se una volta sembrava che i progressi nel conflitto arabo-israeliano dipendessero dal coinvolgimento dei palestinesi, ora sembra altrettanto importante tenere questi ultimi lontani e prestare maggiore attenzione agli Stati arabi. Asad, re Hussein e Saddam Hussein non sono soltanto più forti di Arafat, Habash e di Abu Nidal, ma sono più propensi a scendere a compromessi. Le prospettive del tutto tetre del palestinianismo sono integrate da quelle alquanto favorevoli degli Stati arabi. Porre l'accento sugli Stati ha altresì un altro vantaggio: queste sono le unità convenzionali della politica internazionale e gli strumenti della diplomazia sono tutti orientati a trattare con gli Stati. In effetti, cercare di includere nella diplomazia un attore non statale complica le cose. (Il processo di pace ha tuttavia un pregio: fornisce a israeliani e palestinesi qualcosa di diverso dal mero confronto ed è quindi auspicabile come fine a se stesso. Questa visione alquanto cinica ha diverse implicazioni per i diplomatici americani: Non precipitare le cose – Ne consegue che più lento è il corso dei negoziati, meglio è.) Occorre assicurarsi che l'insuccesso non danneggi gli Stati Uniti o gli alleati americani. E premunirsi contro gli imprevisti per continuare a parlare una volta che si verifica un insuccesso.
Purtroppo, Washington è così intrisa di palestinianismo che non spinge più gli Stati arabi a scendere a patti con Israele. Di certo, le autorità in Marocco, Tunisia, Giordania, Arabia Saudita e in Iraq dovrebbero essere spinte ad accettare Israele verbalmente anche se Arafat lo ha fatto a Ginevra, dicendo di accettare la risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 per la spartizione della Palestina; di rinunciare al terrorismo in tutte le sue forme; e di cercare la pace con Israele. I leader di questi Stati dovrebbero quindi essere incalzati a porre fine al boicottaggio economico di Israele; ad accettare di annullare la risoluzione "il sionismo è razzismo" alle Nazioni Unite; e a smettere di cercare di espellere Israele dall'Assemblea Generale. Ma soprattutto dovrebbero essere spronati a porre fine al loro stato di guerra permanente contro Israele.
La fissazione di Washington sul palestinianismo ha altresì osteggiato la pretesa di Mosca di applicare un "nuovo modo di pensare" al Medio Oriente. Tuttavia, un vero cambiamento nella politica sovietica si tradurrebbe in una riduzione della fornitura di aiuti militari alla Siria, nonché in riduzioni simili nella fornitura di armi alla Libia e allo Yemen del Sud. Una volta fatto questo, Mosca potrebbe convincersi a cooperare con gli Stati Uniti nel ridimensionamento dei trasferimenti di armi in Medio Oriente (soprattutto dalla Cina), fermando la diffusione dei missili balistici e della tecnologia nucleare, e riaffermando, ricorrendo all'uso della forza se necessario, il divieto di guerra chimica.
Ma la chiave è la Siria. Per quanto sia molto indebolita, essa continua ad essere l'avversario più temibile di Israele. In termini di guerra convenzionale, la Siria è l'unico nemico strategico di Israele.
Il governo statunitense ha un gran numero di opzioni, in funzione del grado d'implicazione che desidera avere. L'opzione meno ambiziosa sarebbe quella di limitarsi ad aspettare la fine di Hafiz al-Asad, che non dovrebbe richiedere troppo tempo, poiché Asad è malato. La più ambiziosa sarebbe quella di intraprendere un'azione militare. Tra questi due estremi, Washington potrebbe cambiare il tenore delle relazioni tra Stati Uniti e Siria adottando misure come screditare le politiche siriane e ridurre le dimensioni delle missioni siriane negli Stati Uniti. In modo più ambizioso, Washington potrebbe esercitare pressioni sugli alleati per ridurre le dimensioni e il numero delle missioni diplomatiche siriane all'estero, indurre il Cremlino a limitare il flusso di armi; e far sì che gli Stati arabi si concentrino sul ritiro delle forze siriane dal Libano. Oppure potrebbe imporre sanzioni economiche, una tattica promettente data la grave situazione economica del Paese.
Dopo il Trattato di pace israelo-egiziano del 1979, l'interrogativo diplomatico fondamentale fu il seguente: "Chi sarà il secondo a fare la pace con Israele?" Molti israeliani pensavano che sarebbe stato il Libano, fino a quando il fiasco degli accordi del maggio 1983 non mostrò che i libanesi sono troppo deboli per conseguire tale obiettivo. Re Hussein di Giordania sa che gli manca la forza di farlo da solo. E ritengo che anche i palestinesi siano deboli. Se il primo Paese arabo a fare la pace è stato il più forte, ne consegue che il secondo deve essere il secondo più forte, ossia la Siria. E tenuto conto del "nuovo modo di pensare" a Mosca e della grave situazione economica siriana, quel Paese, come arguisce Patrick Clawson nel suo recente studio pionieristico sulla sua economia, è ora "vulnerabile alle pressioni esterne". È giunto il momento di esercitare tali pressioni.
Nota dell'autore: L'invasione irachena del Kuwait ha confermato e datato il paragrafo che segue. L'invasione ha corroborato in modo drastico e incontestabile i miei punti chiave, ossia che in fatto di relazioni con Israele, gli Stati arabi contano più dei palestinesi e che i palestinesi rifiutano in modo schiacciante l'esistenza di Israele. La facilità con la quale Saddam Hussein ha rubato la scena ai palestinesi testimonia il dominio degli Stati e la sua presa di posizione bellicosa contro Israele hanno chiaramente colpito una corda sensibile tra i palestinesi, a giudicare dalla risposta estremamente positiva che ha ricevuto sia tra i leader dell'OLP sia tra la folla in strada ad Amman. In alcuni casi, anche i palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano (e che probabilmente morirebbero se le bombe chimiche cadessero su Israele) hanno invocato l'inizio dei bombardamenti. In breve, se gli argomenti di questo paragrafo erano controversi quando vennero presentati nel dicembre 1989, gli avvenimenti successivi li hanno resi ordinari.
Allo stesso tempo, la crisi kuwaitiana ha cambiato così radicalmente la politica del Medio Oriente che l'aggiornamento di questo paragrafo sarebbe pressoché inutile. Quando lo presentai nel dicembre 1989, il processo di pace dominava fortemente le preoccupazioni americane nella regione, mentre la stessa regione venne esclusa dagli avvenimenti in Europa. Dopo il 2 agosto 1990, accadde esattamente il contrario: il processo di pace svanì, ma il Medio Oriente divenne in assoluto la principale preoccupazione della politica estera di Washington. Per questo motivo, lascio questo paragrafo com'era alla fine del 1989, in modo che combatta ancora le battaglie e risponda alle preoccupazioni di quel momento.