PHILADELPHIA - (Stati Uniti) - «La Turchia, sin dal novembre 2002, è nelle mani degli estremisti islamici che, a mio parere, hanno imparato la lezione dai loro stessi errori e hanno trovato la soluzione ».
L'avvertimento politico lanciato nei giorni scorsi dal leader libico Muhammar Gheddafi agli europei, riceve una conferma da questa analisi di Daniel Pipes, direttore della rivista Middle East Forum, membro della direzione dell'U.S. Institute of Peace, di nomina presidenziale, columnist del "Jerusalem Post", del "New York Sun" e autore di decine di volumi sull'islam.
Il pericolo, secondo lo studioso americano, rimane: «Hanno dovuto abbandonare il potere per un anno. Hanno cambiato la classe dirigente. Sono diventati più cauti. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan si è guardato attorno e ha capito che era sciocco conquistare il potere con la forza. Hanno abbandonato le armi. Ma il loro scopo rimane sempre lo stesso. Infatti cercano di allontanare i militari dal potere politico per poter islamizzare la società».
È l'esperienza che gli fa tracciare un parallelo storico: «La strategia seguita dai musulmani turchi, in fondo, non è molto diversa da quella adottata dal Partito Comunista in Italia quando ha cercato di lavorare all'interno del sistema. Non c'erano più Stalin e i campi di concentramento, ma la sostanza rimaneva la stessa».
Quindi l'Akp, il partito al governo, non è una sorta di corrispettivo islamico della Democrazia Cristiana?
«Assolutamente no: sono totalitari. Possono adottare un totalitarismo "dolce". Magari sceglieranno di governare con una marcia più lenta, con un modo più gentile, ma al di là dei cambiamenti tecnici, il loro scopo è quello di controllare la società».
Anche se l'Unione Europea ponesse loro dei limiti sui diritti umani?
«Al contrario, avranno un territorio più ampio su cui operare. Uno dei colpi migliori messi a segno dal mondo islamico consiste nel tasso di natalità. E guarda all'Europa come a un'antagonista. Perciò, per una questione demografica, non sarà l'Europa a influenzare i turchi, ma piuttosto il contrario, anche se dovranno rinunciare alla pena di morte. Erdogan stesso la pensa così».
Perché allora è proprio il presidente GeorgeW. Bush a spingere affinché Ankara sia accolta da Bruxelles?
«È una posizione tradizionale degli Stati Uniti, che risale a una Turchia diversa, a maggioranza laica. E i laici, in realtà, sono ancora la maggioranza nel Paese, ma hanno compiuto degli errori disastrosi. E hanno perduto il potere, per non aver saputo frenare la corruzione, negli anni Novanta all'epoca dei governi di Tansu Ciller e Mesut Yilmaz e, ancora prima, ai tempi di Süleyman Demirel e di Bülent Ecevit. Così, il popolo ha voltato loro le spalle e, per la natura particolare del sistema elettorale turco, pur avendo ottenuto soltanto un terzo dei voti, gli islamici sono saliti al potere».
Non sarà che gli Stati Uniti vogliono premiarli per la loro fedeltà alla Nato durante la guerra fredda?
«Credo che tutto sommato sia piuttosto una questione di nostalgia da parte del Dipartimento di Stato americano, che continua a ripetere le stesse posizioni nel corso del tempo, senza tenere conto dei cambiamenti politici, del fatto che Erdogan non è integrato e soprattutto dell'enorme impatto demografico che l'ingresso della Turchia avrebbe sull'Europa. I bambini di oggi avranno vent'anni domani. E certamente non provengono dal nulla».