I negoziati tra Iran e Stati Uniti sulla liberazione dei 52 ostaggi americani sembrano aver raggiunto una fase di stallo. In parte, questo è accaduto perché il governo di Teheran manca di coesione; i massimi leader fanno dichiarazioni contraddittorie e non è ancora chiaro chi sia il responsabile. Ma parte della responsabilità è soltanto dell'amministrazione Carter e del suo approccio confuso alla crisi degli ostaggi.
Come è iniziata la rivoluzione: Jimmy Carter e Mohammad Reza Pahlavi brindano al nuovo anno a Teheran, il 31 dicembre 1977. |
L'amministrazione Carter continua a temporeggiare e ad esitare in merito agli ostaggi. Piuttosto che scegliere una linea politica univoca e perseguirla con perseveranza, il presidente Carter si è destreggiato al contempo tra diversi obiettivi e ha riordinato le priorità a suo piacimento. Questa tendenza a tentare di ottenere molte cose contemporaneamente – alcune delle quali si escludono a vicenda – ha intralciato le relazioni con l'Iran da quando gli ostaggi sono stati sequestrati.
Washington è indecisa fra tre priorità, tre strategie, e non è stata in grado di impegnarsi a favore di una di esse. Il rilascio degli ostaggi è stato rimandato perché Carter non sa decidere se la sicurezza degli ostaggi, l'onore degli Stati Uniti o le considerazioni geopolitiche siano di primaria importanza.
Se Carter focalizzasse l'attenzione sulla sicurezza, darebbe l'impressione che il ritorno a casa degli americani abbia la precedenza su tutto il resto. Ma il problema con questo approccio è che per garantire la loro sicurezza gli Stati Uniti dovrebbero cedere a quasi tutte le richieste iraniane e nessuna scusa nasconderebbe il fatto che stiamo capitolando.
A volte, spostando l'attenzione sul mantenimento dell'onore nazionale, Carter si è comportato come se gli Stati Uniti non avessero nulla a che fare con l'Iran fino a quando tutti gli ostaggi non sarebbero tornati a casa. Dopotutto, egli sembra dire, sono in gioco i nostri principi. Finché il governo iraniano continuerà ad approfittare degli americani in flagrante violazione di tutte le usanze e le leggi riconosciute, Carter ha sottinteso che avrebbe esercitato una pressione incessante su Teheran – boicottando il suo petrolio, congelando i suoi beni e negando gli aiuti militari.
La geopolitica del Medio Oriente è un'altra priorità per il governo statunitense. Nonostante la crisi degli ostaggi, gli Stati Uniti hanno un interesse costante per la stabilità e la sicurezza dell'Iran. Tali considerazioni implicano che dovremmo ignorare il problema degli ostaggi a sostegno del governo iraniano nella sua guerra con l'Iraq.
Riconoscendo il nostro interesse per l'Iran, i fautori di questa strategia vorrebbero che gli Stati Uniti ponessero fine alle sanzioni economiche, fornissero armi a Teheran e incoraggiassero gli aiuti iraniani ai ribelli in Afghanistan. Farebbero questo senza curarsi minimamente degli ostaggi, ovvero gli Stati Uniti offrirebbero questo sostegno per rafforzare l'Iran, e non perché ciò potrebbe portare alla liberazione degli ostaggi americani. A causa della preoccupazione per l'Iran, noi in effetti abbiamo prestato a Teheran un sostegno diplomatico limitato (etichettando l'Iraq come l'aggressore), abbiamo impedito di imporre un blocco navale e abbiamo rinunciato ad ulteriori azioni militari.
Nel valutare queste tre strategie, è chiaro che l'approccio che pone al primo posto la sicurezza degli ostaggi è indegno di seria considerazione. Come hanno spesso rilevato i nostri alleati, gli Stati Uniti, essendo una grande potenza, non possono organizzare in questo modo la loro politica estera, e meno che mai una politica estera i cui interessi globali riguardano l'umanità intera. La vita degli ostaggi non deve avere la precedenza sulle preoccupazioni relative ai principi e alla sicurezza della nazione.
È una questione qui di principio, perché gli Stati Uniti da tempo rifiutano di trattare con gli estorsori. Chiunque ci punti una pistola alla testa non deve guadagnare dal farlo; se un terrorista riesce nel suo intento, noi lo invitiamo a compiere nuove azioni terroristiche. Si tratta altresì di sicurezza, perché accettare i termini fissati dall'Iran ci pone volenti o nolenti dalla sua parte nel conflitto con l'Iraq.
Se la sicurezza degli ostaggi viene scartata come massima priorità, restano gli approcci che enfatizzano l'onore nazionale e la geopolitica. Entrambe le strategie, purtroppo, hanno profonde pecche, rendendo dolorosa qualsiasi scelta operata.
Ribadire la preservazione dell'onore nazionale, a spese di tutto il resto, ignora gli interessi strategici fondamentali. L'Iran, una nazione chiave situata tra l'Unione Sovietica e il Golfo Persico, e l'adiacente Afghanistan, ospita vaste riserve di petrolio e di gas importanti per ogni Paese industrializzato. Se ignoriamo le esigenze dell'Iran, indeboliamo quel governo a livello economico e militare, riducendo la resistenza del regime ai nemici interni ed esterni.
Ma dare la massima priorità alle considerazioni geopolitiche trascura i sentimenti americani. Anche se è saggio schierarsi con l'Iran contro l'Iraq, il popolo americano potrebbe non accettare questo gesto di realpolitik. I governi autoritari possono adottare questo tipo di approccio astuto con poco riguardo per i sentimenti popolari, ma negli Stati Uniti qualsiasi schieramento a favore dell'Iran susciterebbe un'aspra opposizione.
Una manifestazione di protesta a Washington, D.C., nel 1979, dà un senso alla rabbia americana nei confronti dell'Iran. |
Ognuna di queste due strategie presenta evidenti problemi: o vagliamo la possibilità che in Iran scoppino dei disordini ancora maggiori o accettiamo passivamente l'umiliazione. Ma, per quanto dolorosa sia la scelta, il presidente Carter deve stabilire le sue priorità. Questo è esattamente il punto in cui Carter ha ripetutamente fallito; e sembra che lui non abbia mai compreso che non è tanto importante quale politica venga adottata quanto invece che sia attuata con coerenza – e questo è ancora vero.
Costretto a scegliere tra onore e geopolitica, io opterei per l'onore. Una posizione a favore della dignità e dei principi rafforzerebbe la fiducia degli americani in se stessi e migliorerebbe la nostra posizione internazionale. Amici e avversari rispetterebbero allo stesso modo una posizione del genere, soprattutto dopo anni di declino della credibilità e della coerenza degli Stati Uniti.
Al contrario, i vantaggi derivanti dalla concessione di assistenza all'Iran sono discutibili. Non è nemmeno certo che il governo iraniano accetterebbe il nostro aiuto. L'America è un anatema per i governati rivoluzionari iraniani da quando sono arrivati al potere nel gennaio del 1979, e nulla sta a indicare che hanno cambiato idea. L'opposizione agli Stati Uniti ha unificato il governo iraniano altrimenti frammentato. Sebbene non sia un ruolo piacevole per l'America, fungere da Grande Satana potrebbe essere la nostra funzione più utile in questo momento.
Le offerte americane di aiuti potrebbero perfino rivelarsi controproducenti: costringendo il governo a decidere se accettare gli aiuti, noi potremmo creare una crisi a Teheran e rendere l'Iran più vulnerabile alle pressioni sovietiche. Aiutare l'Iran potrebbe anche mettere a repentaglio la nostra posizione nel Golfo Persico. Quando finalmente Paesi come l'Arabia Saudita mostreranno di aver capito che la loro prima preoccupazione di politica estera deve essere la sicurezza del Golfo, e non la distruzione di Israele, sembrerà inopportuno averli abbandonati per l'Iran. Attualmente, la nostra posizione verso l'Iraq dovrebbe rimanere aperta, soprattutto alla luce delle recente tensioni esistenti tra Siria e Giordania. In Medio Oriente, in questo momento stanno succedendo troppe cose per scegliere di schierarci con l'Iran.
E per finire, non è chiaro se dare la priorità alle preoccupazioni geopolitiche servirebbe di fatto i nostri interessi a lungo termine. Le delicate mosse nei confronti dell'Iran potrebbero far guadagnare agli Stati Uniti una fonte di petrolio o un alleato ambiguo, ma questi sono vantaggi secondari e incerti. L'Iran potrebbe nuovamente darci il benservito; potrebbe sottrarsi alla nostra sfera di influenza, prendendosi gioco del nostro impegno. Ciò che è più importante del vantaggio a breve termine è la necessità americana di mantenere una politica estera di saldi principi.
Pertanto, preservare l'onore nazionale dovrebbe essere la nostra priorità assoluta nei negoziati con l'Iran; non dovremmo avere niente a che fare con quel Paese fino alla liberazione degli ostaggi. Mettere da parte le questioni del momento e riaffermare invece i valori fondamentali statunitensi garantirebbe al presidente Carter un'uscita dignitosa e darebbe a Ronald Reagan un ottimo inizio.