Il presidente Trump ha manifestato ripetutamente il suo desiderio di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese, grazie al cosiddetto "accordo del secolo". Mentre il piano specifico del Presidente rimane un segreto ben celato, Trump e i suoi collaboratori di tanto in tanto lanciano piccoli indizi a riguardo. Da quello che si può capire, il piano non promette bene.
Il primo punto delle osservazioni fatte da Trump è la neutralità nei confronti di Israele e dei palestinesi. Ne aveva già parlato nel dicembre del 2015, quando insistette sulla necessità che entrambe le parti "dovessero fare sacrifici" per raggiungere la pace e da allora l'ha ribadito numerose volte. Trump sembra non ricordare che Israele dal 1993 ha fatto ripetute concessioni, tra cui le cessioni di terre e l'approvazione dell'istituzione di un corpo di polizia palestinese, solo per affrontare l'intransigenza e la violenza palestinese.
Il presidente Trump e il leader palestinese Mahmoud Abbas, a Betlemme, il 23 maggio 2017. |
Un'inclinazione favorevole ai palestinesi è emersa nel secondo punto delle osservazioni espresse da Trump nel dicembre 2017. Parlando con il leader dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, Trump si disse, come si legge in un articolo apparso su New Yorker, "deciso a far sì che i palestinesi ottengano l'accordo migliore possibile", sottolineando che "Israele farà delle concessioni reali". Trump ha affermato più di una volta che Abbas avrebbe ottenuto da lui un accordo migliore rispetto a quello che avrebbe strappato al presidente Obama.
Quello stesso mese Trump annunciò la sua decisione di trasferire l'ambasciata americana a Gerusalemme. Ma questo non era un regalo allo Stato ebraico. "Israele pagherà per questo", spiegò pubblicamente Trump; anzi, in un futuro accordo, Israele "dovrà (...) pagare un prezzo più alto" rispetto ai palestinesi.
Nel febbraio del 2018, Trump tornò sul raffronto: "Entrambe le parti dovranno fare dei compromessi difficili", egli disse, e mentre "i palestinesi non stanno cercando di fare la pace (...) non sono necessariamente sicuro che Israele stia cercando la pace".
Poi, nell'agosto del 2018, Trump dichiarò: "Nei negoziati, Israele dovrà pagare un prezzo più alto perché otterrà qualcosa di molto importante", alludendo al trasferimento dell'ambasciata. I palestinesi, tuttavia, avranno "qualcosa di molto buono perché è arrivato il loro turno".
Anche a settembre, secondo la rete televisiva israeliana Channel 10, Trump insistette su questo punto con il presidente francese Emmanuel Macron: "Posso essere duro con Netanyahu sul piano di pace, proprio come lo posso essere con i palestinesi". Quando Macron ha affermato di avere la sensazione che il primo ministro israeliano preferisca lo status quo a un accordo di pace, Trump avrebbe replicato: "Sono molto vicino a giungere alla stessa conclusione".
Sostanzialmente, Trump ha presentato i duri provvedimenti presi dall'amministrazione statunitense contro l'Autorità palestinese, come ad esempio tagliare i suoi finanziamenti, non come delle mosse dettate da principi a favore di Israele, ma come strumenti di pressione per indurre i palestinesi a negoziare: "Sono stato duro con i palestinesi perché non volevano parlare con noi", egli ha detto a Macron. Presumibilmente, queste misure sarebbero revocate una volta che Abbas o i successori si siederanno al tavolo, il che sembra inevitabile visto quanto possono aspettarsi di guadagnare i palestinesi.
Jason Greenblatt, il rappresentante speciale della Casa Bianca per i negoziati internazionali, nell'ottobre del 2018, è tornato sull'argomento della neutralità, annunciando che l'accordo "sarà fortemente focalizzato sui bisogni di sicurezza di Israele, ma vogliamo anche essere imparziali nei confronti dei palestinesi". "Ogni parte troverà in tale piano cose che non le piaceranno", egli ha affermato.
Nikki Haley, all'epoca ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, nel dicembre del 2018, ha accennato alla inclinazione pro-palestinese, osservando che "entrambe le parti trarrebbero grandi benefici da un accordo di pace, ma mentre i palestinesi ne trarrebbero di maggiori, gli israeliani rischierebbero di più".
Questo martellamento di commenti – sulla neutralità, sui sospetti di Netanyahu e sull'aspettativa che Israele faccia maggiori concessioni – segnala una potenziale crisi nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele, forse la più profonda dal 1975, quando Gerald Ford iniziò a "rivalutare" i rapporti, o forse anche dal 1957, quando Dwight Eisenhower costrinse Israele a evacuare la penisola del Sinai.
Se Israele respingesse un piano degli Stati Uniti, Trump potrebbe infuriarsi molto. Come ha mostrato di recente con la Turchia, se contrariato, Trump può cambiare radicalmente i rapporti: egli è passato da una cordiale e fiduciosa conversazione avuta con il presidente turco il 14 dicembre 2018 a una minaccia di "distruggere economicamente la Turchia", lanciata il 13 gennaio scorso. Allo stesso modo, l'ambasciatore americano in Israele lo definisce come "il presidente più pro-Israele di sempre", ma potrebbe diventare il principale avversario di Israele, se i suoi dirigenti dovessero irritarlo. Se ciò accadesse, i palestinesi diventerebbero i grandi beneficiari del favore di Trump.
Finora, gli indizi lanciati dall'Amministrazione statunitense hanno suscitato poche preoccupazioni nella comunità americana pro-Israele, che fiduciosamente, ma erroneamente, fa affidamento su Trump, come se fosse uno dei propri membri. Ma un piano anti-israeliano, come quello di Trump sembra essere, avrebbe importanti implicazioni negative non solo per lo Stato ebraico, ma anche per le speranze che Trump possa essere rieletto. Pertanto, gli americani che appoggiano Israele e i Repubblicani, sperando nella rielezione del presidente, devono protestare e pregiudicare la prospettiva di questo distorto "accordo del secolo".
Aggiornamento del 28 gennaio 2019: Sembra che il primo ministro Netanyahu abbia respinto preventivamente una delle disposizioni riportate nel piano promosso da Trump, e che consiste nel fatto che gli israeliani residenti nelle città più piccole della Cisgiordania debbano abbandonare le loro abitazioni. Recatosi nei pressi di Netiv Ha'avot e rivolgendosi ad alcuni israeliani costretti dall'Alta Corte di Giustizia israeliana ad abbandonare l'anno scorso le loro 15 case, il premier ha dichiarato:
Per quanto mi riguarda, non saranno sradicati nuovi insediamenti, ma piuttosto accadrà l'esatto opposto. La Terra di Israele è nostra e resterà tale. Ciò che è stato demolito sarà ricostruito. C'è chi pensa che il modo per raggiungere la pace con gli arabi sia sradicarci dalle nostre case, ma finché questo dipenderà da me, non accadrà mai.
Commento: Ipotizzo che Netanyahu immagini sia meglio non accettare questa condizione 1) prima che sia resa nota pubblicamente e 2) alla luce della campagna elettorale israeliana. Dubito che questi fatti lo aiuteranno una volta che si troverà di fronte a Trump. Ma è solo la mia opinione.
Aggiornamento del 1° febbraio 2019: Nadav Shragai rileva la stupefacente mancanza di dibattito, soprattutto durante la campagna elettorale, sull'imminente piano di Trump in arrivo a primavera o in estate, un piano che secondo lui costerà caro a Israele per quanto concerne le questioni relative a ciò che Shragai definisce "il vero fulcro della nostra esistenza qui – Gerusalemme, la sicurezza e la difesa, gli insediamenti". In effetti, "non c'è stata assolutamente alcuna discussione pratica o ideologica sull'imminente 'tifone diplomatico'".
La misteriosa quiete spinge Shragai a chiedersi se "è stata raggiunta un'intesa tra Netanyahu e l'amministrazione Trump riguardo l'accordo del secolo? E se sì, qual è?" E conclude:
Una protesta da parte della destra che romperebbe il monopolio dell'inchiesta sulla corruzione nella nostra campagna elettorale, non solo non danneggerebbe Netanyahu, ma potrebbe essergli utile. E sarebbe anche utile per ammorbidire la proposta di Trump e mostrare agli americani quanto sarebbe difficile imporre all'opinione pubblica israeliana un piano che danneggi l'integrità di Gerusalemme e gli insediamenti in Giudea e Samaria.
Alla vigilia di un evento destinato a decidere il destino di Gerusalemme e della terra di Israele, qualsiasi campagna elettorale che non menzioni la campagna diplomatica in serbo è azzoppata e viziata. È giunto il momento di porre le domande giuste e di pretendere risposte.