WASHINGTON - «Il presidente sembra distinguere tra la violenza inaccettabile e la violenza accettabile. E' un ragionamento sottile. Pare segnalare di essere disposto a dialogare con un tipo di opposizione non terroristica, un nemico con cui si può lavorare». Daniel Pipes, consulente dell'Amministrazione sull'Islam e il Medio Oriente, commenta la dichiarazione di Bush a Paris Match. Il presidente ha dichiarato che i kamikaze sono terroristi, ma altri combattenti della resistenza irachena non lo sono. «E' una novità, il presidente vi accennò per la prima volta l'altro ieri parlando del nuovo governo a Bagdad».
Perché questa distinzione?
«Secondo me, significa che incominciamo a ridimensionare le nostre aspettative, a sviluppare piani meno ambiziosi. Ci siamo accorti che portare la democrazia in Iraq non è una cosa facile, neanche con le armi, e ripieghiamo sulla sua stabilità, la emarginazione dei terroristi, la sua ricostruzione, e così via».
In che cosa potrebbe tradursi sul piano politico?
«In una collaborazione con uno spettro assai più ampio di baatisti, ex militari di Saddam Hussein, nazionalisti, combattenti. Il presidente sembra essersi reso conto che non siamo percepiti come potenza liberatrice ma occupante. E dice esplicitamente che è una condizione che nemmeno lui tollererebbe nel suo Paese».
Ma Bush ha fatto un discorso bellicoso in Colorado, insistendo sulla guerra preventiva.
«E' difficile analizzarlo a caldo perché è complesso. Ma non mi pare che ci sia una contraddizione di fondo con la intervista a Paris Match. Una cosa infatti è lottare contro il terrorismo - e qui è intransigente - un'altra creare un Medio Oriente democratico con un colpo di bacchetta magica in Iraq. La democrazia nel mondo islamico, ha evidenziato, è un obbiettivo a lungo termine».
Bush delinea una dottrina Truman di contenimento non più del comunismo ma del terrorismo?
«Non ne sono sicuro, anche se non lo escludo. Secondo me, ripeto, delinea una rettifica di rotta in Iraq, una rettifica che io chiedo da un anno. L'Iraq è circondato da Paesi come l'Arabia Saudita e l'Iran dominati dall'Islam ed esce da 30 anni di tirannia. Il rischio è che cada nelle mani peggiori. L'obiettivo è di impedirlo coinvolgendo il maggior numero di interlocutori possibile».
Lei pensa che la nomina del nuovo governo iracheno segni una svolta decisiva?
«No. Segna l'inizio di un periodo di circa due anni in cui forze diverse si giostreranno per il potere. È come se si fosse aperta la stagione di caccia politica. Il meglio che la coalizione potrà fare sarà evitare il caos, mediare e tenere un profilo militare basso. Non si può colonizzare l'Iraq ma nemmeno abbandonarlo».