La presente traduzione è differente da quella effettuata e pubblicata dal Corriere della Sera.
Alcuni giorni fa, nel corso del pellegrinaggio alla città santa di Karbala, migliaia di sciiti iracheni hanno salmodiato: «No, all'America. No, a Saddam. Sì, all'Islam». Sempre più iracheni sembrano concordare con queste opinioni, con sinistre conseguenze per le forze di coalizione.
La gratitudine nutrita nei confronti dei liberatori è in genere di breve durata e quella degli iracheni non farà eccezione. Come ha detto un cinquantenne direttore di fabbrica: "Grazie, americani. Ma adesso qui non c'è più bisogno di voi".
Per quanto siano felici di essersi sbarazzati dell'incubo di Saddam, gli iracheni continuano a vivere interiormente in un mondo dominato dalle teorie cospirative e sono in molti a nutrire dei profondi sospetti in merito alle intenzioni della coalizione.
«Sì, all'Islam» significa in pratica: «Sì, all'Islam militante di stampo iraniano». L'instaurazione di questo sistema fallito sarebbe un disastro per l'Iraq e vivificherebbe il messaggio di Khomeini che oramai ha perso quasi tutto il suo fascino in Iran.
Questa situazione pone i membri della coalizione di fronte a un dilemma: quali vincitori del regime di Saddam Hussein, essi desiderano restaurare il Paese, vale a dire che non vogliono allontanarsi da lì; come liberatori del Paese, devono mostrarsi sensibili ai desideri degli iracheni, vale a dire che devono andarsene rapidamente.
Che fare? Se le forze di coalizione abbandonano prontamente l'Iraq, il Paese sarebbe in balia dell'anarchia e dell'estremismo. Se si trattenessero troppo a lungo, dovrebbero fronteggiare una violenta reazione anti-imperialista, accompagnata da atti di sabotaggio e di terrorismo. Se esse organizzassero delle elezioni anticipate, probabilmente vincerebbero i mullah khomeinisti. Se esse mantenessero il Paese sotto l'autorità di una forza di occupazione, si solleverebbe un'intifada.
I governi americano e britannico devono fare la quadratura del cerchio – ristabilire l'ordine nel Paese e instaurare la democrazia senza permettere agli iraniani di assumere il controllo. Io posso dare due consigli:
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Pianificare a lungo termine. Ci vuole del tempo per creare una vera e propria democrazia (ossia, rovesciare con regolari elezioni il capo del governo). Sono occorsi sei secoli alla Gran Bretagna, dalla Magna Charta del 1215 al Reform Act del 1832. Agli Stati Uniti basta più di un secolo. Ai nostri giorni, le cose si sono velocizzate, ma occorrono ancora almeno venti anni per arrivare a una vera democrazia. Era il tempo che occorreva a Paesi come la Corea del Sud, il Cile, la Polonia e la Turchia.
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Pianificare una graduale transizione. Una popolazione che viene fuori da trenta anni di repressione non è in grado di assumersi tutte le scelte della piena democrazia, ma deve procedere a tappe. Degli autocrati favorevoli alla democrazia sono in grado di guidare il Paese verso un sistema pienamente democratico più che delle elezioni anticipate.
Pertanto: l'Iraq ha bisogno – e scrivo queste parole con una certa apprensione – di un forte uomo iracheno con un profilo democratico. Ciò potrebbe sembrare una contraddizione, ma vi sono dei celebri esempi offerti da Atatürk in Turchia e da Chiang Kai-shek a Taiwan. Sì, questa proposta è contraria ad ogni impulso americano («Democracy Now!» è il titolo di un programma radiofonico nazionale), ma non c'è motivo di rifiutarla.
La democrazia è un'abitudine acquisita, non un istinto. Le basi strutturali di una società civile – libertà di espressione, libertà di circolazione, libertà di riunione, stato di diritto, diritti delle minoranze, giustizia indipendente – devono essere stabiliti prima di indire le elezioni. Devono aver luogo dei profondi cambiamenti attitudinali, al fine di stabilire una cultura di moderazione, un insieme di valori comuni, il rispetto delle differenze di opinione e il senso di responsabilità civica.
Ci vorranno degli anni prima che in Iraq attecchiranno tali istituzioni e comportamenti del genere. Nel frattempo, dovranno indirsi delle elezioni a livello locale. La stampa dovrebbe arrivare a piccoli passi all'assoluta libertà; i partiti politici dovrebbero crescere in modo organico; il Parlamento dovrebbe acquistare potere. Gli sciiti sono perfettamente in grado di sviluppare delle idee democratiche, senza l'influenza del khomeinismo.
Chi dovrebbe assumere il ruolo essenziale di uomo forte? Il candidato ideale sarebbe quello politicamente moderato, ma capace di agire con fermezza; qualcuno mosso dall'ambizione di guidare l'Iraq verso la democrazia e di stabilire dei rapporti di buon vicinato.
Quanto alle forze di coalizione, dopo aver insediato al potere un uomo forte, esse dovrebbero adottare gradualmente un basso profilo e ritirarsi in qualche base militare lontana dai centri urbani. Da lì, potranno tranquillamente fungere da partner militare del nuovo governo, garantendo la sua massima sicurezza, e apportare degli impulsi costruttivi per l'intera regione.
L'approccio qui delineato placherebbe la furia anti-imperialista, farebbe da argine alle azioni violente che quasi certamente si scatenerebbero contro le truppe di coalizione ed impedirebbe agli iraniani di colonizzare l'Iraq. Ma il tempo utile sta per scadere: se la coalizione non designerà al più presto un uomo forte, essa non raggiungerà i suoi ambiziosi obiettivi.