L'apertura degli archivi occidentali dopo trent'anni ci permette ora di sapere la verità su argomenti come Eisenhower e Israele (da me recensito nelle pagine del MEQ, nel numero Giugno 1994), i primi anni di regno di re Hussein (da me recensito nelle pagine del MEQ, nel numero Settembre 1994) e il ruolo di Israele nella crisi di Suez (da me recensito nelle pagine del MEQ, nel numero Marzo 1995). In modo simile, Podeh porta alla luce i meccanismi interni del patto di Baghdad.
Egli stabilisce diversi punti: 1) una "ricerca dell'egemonia" nel mondo arabo ha guidato la rivalità egiziano-irachena più dell'ideologia, anche se quest'ultima ha esacerbato il conflitto; 2) la Siria non fu il campo di battaglia decisivo di questa rivalità, lo fu piuttosto la Giordania; 3) gli arabi presero delle "decisioni importanti" sui loro destini, nonostante la presenza continua delle leve imperiali del potere; e 4) l'anno 1956 segnò "una svolta" per il Medio Oriente, con la Gran Bretagna che svaniva lentamente, l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti che comparivano poco a poco e Gamal Abdel Nasser che emergeva come leader pan-arabo. Strada facendo, Podeh resuscita importanti eventi che però sono stati quasi dimenticati, come il Patto turco-iracheno del febbraio 1955 e lo sbarco delle truppe egiziane in Siria, nell'ottobre 1957 (a suo avviso fu quella la prima volta in cui la forza militare fu impiegata da un paese arabo contro un altro).
Il patto di Baghdad ha rappresentato un tentativo occidentale di costruire un'organizzazione mediorientale per collegare la NATO con la SEATO (South East Asia Treaty Organization, sigla con la quale è indicato il trattato per la difesa collettiva dell'Asia sud-orientale, N.d.T.). Quell'obiettivo è però fallito trasformandosi piuttosto, come ha asserito John Foster Dulles, in "un forum per la politica araba e per gli intrighi". Quattro decenni dopo, riusciamo finalmente a capire i motivi di questo fallimento: il Medio Oriente non marcia al ritmo dei capitali stranieri ma ai propri ritmi.