Come dimostrato dal rovesciamento di Saddam Hussein, i conservatori americani pensano che l'azione preventiva, l'uso massiccio della forza e il far da sé, siano talvolta necessari per preservare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
I progressisti dissentono. Il New York Times, che parla a nome di questi ultimi, pubblica due editoriali diretti contro ciò che definisce "la posizione eccessivamente aggressiva da lupo solitario" del Presidente George W. Bush, e afferma che così facendo egli rischia di minare i suoi obiettivi inimicandosi il mondo. I nove candidati democratici alla Presidenza americana sollevano le stesse critiche come anche la Federazione Americana del Lavoro e l'Associazione delle Organizzazioni Industriali (AFL-CIO) e innumerevoli editorialisti, leader religiosi e rappresentanti del mondo accademico.
Oltre a dissentire sulle specifiche azioni dell'amministrazione Bush in Iraq, la posizione dei progressisti costituisce una sfida per i vasti impegni presi dai conservatori sulla necessità di una politica estera americana attiva e in prima linea. L'amministrazione Bush è stata la sola a bocciare due trattati (quello della Corte Internazionale di Giustizia e il Protocollo di Kyoto) e due accordi (quello sulle armi leggere e quello sulle armi chimiche e biologiche). Ha preso altresì altre decisioni importanti (rinunciare al Trattato ABM con la Russia ed espandere la NATO fino ai confini russi).
"Bush si fa nuovi nemici più velocemente di quanto non dissuada i vecchi", in tal modo Gerard Alexander dell'Università della Virginia sintetizza la tesi progressista – da lui rifiutata incisivamente nell'edizione del 3 novembre del Weekly Standard. Alexander scorge due elementi essenziali nella tesi progressista: gli altri Paesi si sentono per la prima volta minacciati dalle azioni americane; e tali Stati reagiscono prendendo delle posizioni contro Washington. Esaminiamo ognuno di questi elementi.
Sentirsi per la prima volta minacciati: Passando in rassegna i fatti accaduti negli ultimi cinquant'anni, Alexander rileva parecchie occasioni in cui gli altri Paesi hanno preso le distanze da Washington.
- Anni '50: Gli alleati europei degli Stati Uniti formano un blocco europeo occidentale. La Francia crea una forza d'urto nucleare indipendente.
- Anni '60: La Francia si ritira dalla NATO. La maggior parte degli alleati americani protestano violentemente contro l'intervento americano in Vietnam.
- Anni '70: L'OPEC utilizza l'arma del petrolio contro gli Stati Uniti essenzialmente per contestare la politica americana in Medio Oriente.
- Anni '80: In ciò che costituisce un'anticipazione della situazione odierna, gli europei trattano Ronald Reagan come se fosse un idiota e un cowboy, organizzano delle grosse manifestazioni di protesta contro la minaccia nucleare statunitense e si oppongono in linea di massima ai programmi americani di costruire dei sistemi di difesa missilistici, di riforma delle Nazioni Unite e di isolamento dei sandinisti. Su questioni come quella della Convenzione sul Diritto del Mare, si oppongono all'unanimità alle posizioni di Washington.
- Anni '90: Più volte l'Unione Europea è in contrasto con gli Stati Uniti su questioni di ordine commerciale. E annuncia altresì la creazione di una forza militare unificata, disgiunta dalla NATO.
In breve, le tensioni odierne hanno un qualcosa di familiare con quanto detto prima.
Prendere delle posizioni contro Washington: "Osservare ciò che fa e non solo ciò che dice", sottolinea Alexander, "è il modo migliore per valutare ciò che la gente pensa dell'America". Per quanto possano talvolta sembrare sfavorevoli i sondaggi d'opinione e avversi gli sforzi diplomatici, non significa che c'è una crisi in corso. Una crisi implicherebbe che dei forti alleati degli Stati Uniti prendessero almeno una delle due decisioni seguenti:
- Fare degli investimenti massicci nel potenziamento delle capacità militari in materia di rafforzamento degli armamenti e di mobilitazione delle truppe. Ciò non è accaduto. Alexander osserva che "non esiste alcuna prova che attesti, neppure minimamente, l'esistenza di simili investimenti, per mettersi al riparo da future azioni americane". L'Unione Europea destina in genere da un mezzo a un terzo del budget che Washington assegna per le spese militari e questa generale proporzione non è cambiata negli ultimi due anni, con l'eccezione di alcune piccole spese indirizzate alle nuove priorità dettate dal terrorismo.
- Porre in essere delle esplicite alleanze militari. Anche qui, Alexander osserva: "Nulla prova che la cooperazione tra i maggiori membri della UE e la Russia (o la Cina) vada oltre un'opposizione a un'invasione che è già avvenuta.
La risposta alle recenti azioni americane si è limitata alle parole, pertanto ha acquisito un esiguo significato.
"Stando ai comuni criteri", sottolinea Alexander, "gli europei e numerosi altri si comportano come se fossero risentiti per alcune scelte della politica americana, sono irritati dall'influenza americana, si sono opposti a determinate azioni condotte dall'amministrazione Bush e non apprezzano il Presidente Bush più del suo predecessore, ma non si sentono assolutamente minacciati dagli Stati Uniti". La noia non è importante quanto l'ostilità.
Non esiste alcuna prova convincente che dimostri che "l'attuale politica americana guasti la reputazione dell'America, che i critici di Bush intravedono". Tradotto in termini politici, ciò significa che questi critici debbono trovarsi altre fonti di controversia.