Di lui dicono sia più realista del re. Quindi più neocon di Bush. Daniel Pipes, consigliere addetto alla lotta al terrorismo per il dipartimento della difesa Usa, passa per essere un autentico falco. Ha pubblicato dodici saggi in pochi anni e intrapreso collaborazioni con sei quotidiani diversi: una prolificità che gli è valsa la qualifica di abile comunicatore della squadra del Presidente. Lo abbiamo incontrato ieri, approfittando della sua presenza in Italia per una conferenza. Gli Stati Uniti, dice, «stanno valutando in questi giorni una decisione difficile da prendere sulla permanenza o meno in Iraq». Mentre era in volo per Roma, Pipes ha seguito la conferenza stampa di Bush: incalzato dai giornalisti, il presidente ha tenuto fermi i capisaldi della dottrina del domino, quella che il nostro interlocutore aveva scritto in un saggio del 1995, sei anni prima che l'11 settembre lo promuovesse a chiaroveggente di corte.
Pipes recita a soggetto: «Baghdad darà l'esempio a tutta l'area. Dobbiamo pensare di meno ai dittatori e di più ai popoli. La gente ha il potere di cambiare i governi. Dobbiamo dar loro una ignezione di fiducia e le novità arriveranno, anche senza il nostro impulso diretto».
Il crescente scetticismo dell'opinione pubblica americana sul proseguimento della missione in Iraq non lo preoccupa. «Io stesso - dice - sono parte di quella percentuale che vuole il ritiro, ma non dall'Iraq, solo dalle grandi città. Dobbiamo avviare la costruzione del governo territoriale dell'Iraq a partire da un'idea di stato federale, con piena autonomia irachena. Il Medio Oriente e l'Iraq sono polveriere, come tutti possono vedere. Serviranno anni per cambiare la situazione». Quanti? «Dieci», scommette il nostro interlocutore. E la presenza americana nella regione va assicurata «per anni», dice. E sorride sornione, in quella che appare un'evidente allusione a Donald Rumsfeld: i calcoli li avevano fatti, a Washington. Ma ogni attentato che colpisce un soldato americano sposta l'orologio della missione. I soldati Usa uccisi dal 1 maggio, data formale della fine delle ostilità, sono più di quelli morti in guerra e il fantasma vietnamita torna a far paura all'America. I neocon sembrano interrogarsi sempre più spesso tra loro sul calendario da tenere in vista per il soggiorno iracheno. Rumsfeld pare intenzionato a levare le tende quanto prima, e Pipes gli fa da contraltare: «Si rimane finché sarà necessario, anche a lungo». E' il richiamo alla responsabilità che torna in tutte le esternazioni dei neocon. L'eco di questa evocazione è stata percepita dalle Nazioni Unite. Anche perché, senza un generoso apporto di caschi blu, i conti dei neocon non tornano più.
Gli chiediamo di "giocare" con una virtuale bacchetta magica. Ha davanti tre nazioni: Iran, Siria e Arabia Saudita, può usare la bacchetta per cambiare uno solo dei governi. Daniel Pipes, il duro, sorride. «Magari potessi averla», dice. «L'Iran richiede più di una bacchetta. L'Arabia Saudita no, per carità. La Siria, ecco cosa cambierei. E' una priorità: Assad è un amico dei terroristi, e noi siamo i loro avversari». Quando insistiamo chiedendogli se immagina un regime change in Arabia Saudita ha quasi un fremito. «No, Ryad è una strana realtà, non sono né amici né nemici dell'America. Diciamo che sono rivali. Ma stimolare un nuovo corso saudita sarebbe pericolosissimo». Sul volto sereno dello stratega appare per la prima volta un cenno di tensione: «Ci sarebbe il rischio di un nuovo regime talebano».
Viene da chiedersi perché sull'Iraq non ci si è posti nello stesso ordine di idee sul dopoguerra. «Sapevamo che avremmo incontrato mille difficoltà, e messo anche in conto qualche resistenza. Ma Saddam Hussein rappresentava una minaccia vera per gli Stati Uniti e per il mondo».
L'invasione americana ha accentuato l'antiamericanismo in Europa, dice, ma la cosa non lo preoccupa troppo. Non è che una moda, sostiene. Passerà in fretta: «Chi oggi contesta l'intervento militare americano dovrebbe aspettare di vederne i risultati: ci interessa il futuro libero di quelle popolazioni».
Infine, il conflitto israelo-palestinese. Qui le idee del falco di Bush sono terribilmente chiare: «Bisogna constatare il fallimento di tutti i tentativi di pace, uno dopo l'altro. E con quello della Road Map si sono messe a nudo le debolezze diplomatiche delle parti in causa». Tra le quali Pipes non si dichiara imparziale: «I palestinesi non sono in grado di sedere autorevolmente ad un tavolo di trattativa». Arafat? «E' come se non esistesse. Bisogna superarlo del tutto».