VOGLIONO ripetere Beirut 1983, hanno attaccato gli italiani con l'intento di spingere gli alleati degli Stati Uniti ad abbandonare l'Iraq". È questa la lettura dell'attacco di Nassiriya che viene da Daniel Pipes, direttore dello "United States Institute of Peace" di Washington e ascoltato analista di questioni mediorientali all'interno dell'Amministrazione Bush.
Chi ha attaccato gli italiani? "Possono essere stati i miliziani lealisti di Saddam Hussein o cellule di terroristi venuti dall'estero, legati ad Al Qaeda, oppure entrambi".
Perché hanno scelto come obiettivo i nostri carabinieri? "Vogliono inviare un segnale ai Paesi alleati degli americani".
Quale segnale? "Vogliono che ne ne vadano. Nei confronti dei Paesi che, come l'Italia, hanno già inviato truppe l'obiettivo è obbligarli al ritiro, ad andarsene il più velocemente possibile. Nei confronti di chi invece ancora non ha soldati sul terreno, l'intenzione è impedire che decidano di farlo. La priorità è evitare l'arrivo di altre truppe a fianco degli Usa. L'intenzione dei terroristi è far crollare la coalizione per mancanza di attori, isolare gli americani, far fallire l'opera della ricostruzione basata sulla coesione fra i Paesi alleati della coalizione".
Possono riuscirci? "Nel 1983 in Libano i terroristi ci riuscirono. All'epoca gli attentati con le autobombe e i kamikaze vennero compiuti contro le truppe francesi e americane. Vi furono centinaia di vittime. L'impatto politico, sui governi come sull'opinione pubblica, fu tale che Parigi, Washington e anche le altre capitali che avevano contingenti nella forza di pace multinazionale - come Roma - decisero di cedere, di andarsene. Come il presidente Bush ha detto in più occasioni, per i terroristi si trattò di una grande vittoria. Se ci dovesse essere un'altra ritirata degli alleati da Baghdad, il fronte del terrorismo ne uscirebbe ancor più rafforzato di quanto non fu allora".
Quali sono le scelte che ha di fronte ora il governo italiano per rispondere all'attentato? "I terroristi hanno sfidato il governo di Silvio Berlusconi e la sua decisione di contribuire alla ricostruzione dell'Iraq nel quadro di uno sforzo internazionale. Non credo che Roma si aspettasse di subire un tale numero di perdite di vite umane. È un momento delicato. Adesso l'Italia ha tre scelte davanti: può cedere e ritirare le truppe, può lasciarle lì dove stanno o può ridefinire il loro dispiegamento sul terreno".
Che cosa dovrebbe fare? "Ritirarsi sarebbe, a mio avviso, la scelta peggiore. Non prendere provvedimenti non sarebbe di alcun aiuto. Bisogna invece ridefinire il dispiegamento. E questo vale non solo per gli italiani". Perché cambiare lo schieramento delle truppe? "Perché adesso i soldati della coalizione - polacchi, americani, britannici, ucraini o italiani - sono facili obiettivi per le azioni della guerriglia, in quanto sono stati schierati all'interno delle zone urbane. Nelle città è più difficile difendersi. Ogni auto che circola può essere una bomba, da ogni finestra può essere lanciata una granata, ogni vicolo è un possibile teatro di agguati. Le pattuglie sono obiettivi quasi fissi. Non è un caso che i più gravi attentati messi a segno dalla guerriglia siano avvenuti tutti dentro le città: a Najaf contro la moschea di Alì; a Baghdad contro le Nazioni Unite, la Croce Rossa Internazionale, diverse ambasciate; a Nassiriya contro i soldati italiani".
Come dovrebbero essere riposizionati i soldati alleati? "Ciò che sostengo è la necessità di uscire dalle città. Bisogna far lasciare al grosso delle truppe i centri urbani e affidare sempre più queste zone all'opera di pubblica sicurezza delle nuove forze irachene, agenti e soldati. Il loro numero sta aumentando grazie agli esiti dei corsi di addestramento. Possono svolgere questo compito in breve tempo. Bisogna assegnarglielo".
E i soldati della coalizione? "Devono essere spostati fuori. Lontano dalle zone più popolose. In basi create nel deserto. A occuparsi di controllare i confini con Iran, Siria e Arabia Saudita, a proteggere le comunicazioni, le infrastrutture nazionali, gli oleodotti e le stazioni di benzina lontano dalle città".
Ma questo non significherebbe abbandonare le città alle guerriglia dei lealisti di Saddam? "No, in città la presenza delle forze di sicurezza irachene deve essere massiccia. Ciò eviterebbe ai nostri soldati di essere facili bersagli. Consentirebbe di concentrare più forze nella caccia ai terroristi, di incalzarli con maggiore efficacia e più risultati di quelli, scarsi, che finora abbiamo avuto".
Il capo dell'Amministrazione militare, ambasciatore Paul Bremer, è reduce da due giorni di colloqui alla Casa Bianca per esaminare le difficoltà in Iraq. C'è chi sostiene la necessità di aumentare l'entità del contingente e chi preme per un'escalation delle attività militari.
Quali sono a suo avviso le mosse più urgenti da fare? "Oltre a uscire dalle città, bisogna affrettare la transizione dei poteri alle autorità irachene. Stiamo andando a rilento. La risoluzione 1511 delle Nazioni Unite fissa la scadenza del 15 dicembre per rendere noto il calendario della transizione. Bisogna accelerare i tempi. Investire di responsabilità le autorità irachene è un passaggio centrale della fase della ricostruzione. Devono assumere la guida del Paese e il nostro compito è aiutarli a farlo in tempi stretti".