«Siamo a una svolta. L'attentato di Bagdad è il preludio a una massiccia campagna terroristica non soltanto in Iraq ma anche in America e in Europa. Le truppe della coalizione devono abbandonare le città e arroccarsi sulle postazioni più strategiche nel deserto. Nelle città l'ordine va tenuto da un governo e da forze iracheni scelti con attenzione». Al telefono dalla sua casa di campagna in Pennsylvania, il consulente della Casa Bianca Daniel Pipes, direttore dell'Istituto del Medio Oriente, ammonisce che il tempo stringe: «Fin dalla vittoria osservai che se l'occupazione dell'Iraq fosse durata troppo a lungo - e purtroppo non se ne vede la fine - la violenza sarebbe divenuta endemica. La strage di ieri lo ha confermato».
Ma non è una misura rischiosa? Non è meglio che gli Usa affidino l'Iraq all'Onu?
«Non è una misura rischiosa: per le nostre truppe è più facile difendersi nel deserto e al tempo stesso appoggiare le forze irachene nelle città. Quanto all'Onu, gli Usa non vogliono delegarle il potere, il presidente Bush lo ha detto molto chiaramente. E, in maggioranza, il popolo iracheno è contrario a qualsiasi presenza straniera, che essa porti il cappello dell'Onu o no».
A che governo e a che forze iracheni pensa? Chi e come li sceglierebbe?
«La selezione e l'addestramento dell'esercito e del corpo di polizia sono incominciati già il mese scorso. Lo stesso vale per il governo. Si tratta di accelerare il ritmo al massimo. Il nostro dovere è di incoraggiare gli iracheni a realizzare la democrazia. E' un sistema indiretto di gestire il Paese».
Lei ritirerebbe dalle città anche le truppe italiane, spagnole, polacche e così via?
«Sicuro, e una parte la manderei a casa. Siamo noi e gli inglesi, non voi, che vogliamo una solida presenza in Medio Oriente, per ragioni politiche, economiche, strategiche. Parte delle truppe potrebbe tornare più tardi».
Che messaggio gli attentatori hanno cercato di inviare attaccando l'Onu?
«Che nessuno che interferisce nelle questioni irachene o si schiera contro il terrorismo è protetto da rappresaglie. Ripeto: Al Qaeda, i nostalgici di Saddam Hussein, i nemici dell'Occidente in genere sono partiti all'offensiva. Ogni nostra mossa in Iraq va sorretta da operazioni in altre nazioni contro i terroristi, Bin Laden in testa».
Lei sta delineando due guerre parallele...
«Esattamente. Una guerra tradizionale, quella dell'Iraq, che adesso è degenerata in guerriglia. E una guerra assai più ampia in cui, sì, ci sono necessari l'apporto dell'Onu, quello dell'Islam moderato, e quello del Terzo Mondo. Una guerra che deve mobilitare tutti, e costringere l'Italia a sorvegliare, che so, la moschea di Roma come l'America sorveglia la moschea di Portland e l'Inghilterra sorveglia le moschee di Londra».
Pensa che si possano vincere le due guerre?
«Sì. In questo momento, incomincia la fase forse più difficile dei due conflitti: dobbiamo aspettarci attentati ovunque, ma se serreremo le file, il terrorismo verrà sconfitto».
Nella lotta al terrorismo lei include l'eliminazione dei kamikaze in Israele?
«Inevitabilmente. Gli eventi in Iraq, che adesso è una nazione aperta come non lo fu mai, e quelli in Israele non sono identici, ma l'obbiettivo è lo stesso: impedire la stabilizzazione e la pace della regione».
Certi media americani definiscono l'Iraq «un Vietnam di sabbia» e scrivono che potrebbe costare caro a Bush.
«Sono esagerazioni. Gli ultimi sviluppi iracheni non giovano al presidente, ma è assurdo paragonare l'Iraq al Vietnam. Con provvedimenti analoghi a quelli da me indicati, la situazione potrebbe essere sotto controllo in un anno circa».