I giornalisti del New York Times hanno creato un genere tutto loro – ciò che Adam Garfinkle ha descritto come "dei libri lunghi, ricchi di aneddoti e scritti con lirismo sui temi oggetto dei loro incarichi più recenti"; l'autore rileva altresì che questi volumi occupano la stessa nicchia che un tempo era occupata dai documentari di viaggio del XIX secolo. La Crossette ha felicemente ripreso questa tradizione e ha scritto una cronaca più modesta ma probabilmente più convincente sull'India.
Anche se non è un libro bianco, il testo della Crossette tenta di compensare ciò che lei ritiene essere la visione apertamente romantica che parecchi visitatori hanno dell'India. A questo riguardo, il capitolo sulla "deriva di un sottocontinente" ha una forza particolare. In esso, l'autrice traccia un ritratto devastante degli indiani che adulano gli stranieri corrotti come Adnan Khashoggi; parla delle torture usate contro i dissidenti e della dipendenza psicologica dall'Unione Sovietica. La Crossette mostra fino a che punto i leader politici e gli intellettuali indiani ignorino le realtà internazionali, quanto siano arroganti i loro pregiudizi e come siano grossolane le loro inclinazioni. Malgrado "il contributo minuscolo che il Paese dà al commercio internazionale (…) la superficialità del suo sviluppo nazionale e le centinaia di milioni di persone malnutrite che vivono al limite della sussistenza", l'elite della politica estera continua a illudersi considerando l'India come una potenza di cui bisogna tenere conto nel mondo. Nello stesso tempo, in modo più ottimistico, l'autrice ravvisa la presenza di un piccolo numero di realisti, come ad esempio Rajiv Desai, che chiede agli indiani di dubitare delle politiche "che lasciano l'India raccogliere noci e bacche nei boschetti sperduti ai margini della principale corrente mondiale".